SULLA INDICAZIONE TEMPESTIVA E SPECIFICA DEI FATTI NELLA ARTICOLAZIONE DELLA PROVA TESTIMONIALE NEL PROCESSO CIVILE ORDINARIO (Cass. 19/01/2018 n° 1294) A cura dell’Avv. Antonio Arseni- Foro di Civitavecchia.

Sommario “ 1. Premessa introduttiva 2. Sulla indicazione specifica dei fatti. 3.Sulla articolazione istruttoria c.d. valutativa e 3.1……sulla ammissibilità dei c.d. apprezzamenti inscindibili dal fatto. 4. Sulla prova orale negativa. 5. La mancata specificazione dei fatti comporta una nullità rilevabile di ufficio o no?. 6 Sulla inammissibilità della prova relativa alle modalità di indicazione dei testimoni.

  1. Premessa introduttiva

Come è noto la tempestività e la specificità rappresentano le due fondamentali direttrici di cui occorre tener conto nel momento in cui, chiusa la fase assertiva, attraverso la fissazione del thema decidendum, ovvero la cristallizzazione del complesso dei fatti costitutivi delle domande ed eccezioni delle parti, che delimitano l’oggetto del giudizio, si passa alla successiva fase della fissazione del thema probandum, finalizzata ad assolvere alla funzione di fornire il relativo supporto probatorio. Uno snodo importante del processo civile , dipendendo dal corretto svolgimento delle attività assertive e della deduzioni dei mezzi di prova gli esiti della causa.

In questo senso, il nesso eziologico e processuale tra attività assertiva e probatoria conduce ( come precisato dalla dottrina e dalla giurisprudenza) alla affermazione del principio secondo cui non sarebbe possibile provare fatti che non siano stati ritualmente e tempestivamente allegati dalle parti. Ed, invero, l’allegazione tempestiva del fatto (negli atti introduttivi) determina la rilevanza probatoria dello stesso e dei mezzi istruttori articolati per dimostrarne la esistenza.

Sotto altro profilo, in presenza di una tempestiva deduzione di prova di un fatto, la stessa risulterà inammissibile nella misura in cui quel fatto non sia stato allegato tempestivamente entro il termine stabilito per le deduzioni assertive.

La giurisprudenza di legittimità da tempo insiste sugli enunciati principi facendo riferimento, a tal proposito, alla “necessaria circolarità” fra gli oneri di allegazione , di contestazione e quelli della prova (cfr. Cass. S.U. 17.6.2004 n.11353)

Le preclusioni probatorie, di cui sopra si è fatto cenno, scandiscono l’attività istruttoria del processo permettendo al giudice, attraverso l’assunzione delle prove, di addivenire all’accertamento del fatto controverso che, però, non sempre si risolve in un accertamento della verità storica del fatto stesso. Non è qui il luogo per affrontare l’interessante dibattito, fra i cultori del diritto, che si registra in subiecta materia, pur ricordando, in via generale, che nel nostro sistema l’accertamento della verità deve coniugarsi con l’esigenza del giusto processo e della sua ragionevole durata, secondo i principi scolpiti nella Carta Costituzionale.

Di qui la comune opinione, abbastanza diffusa nella cultura processualistica, che dal processo inevitabilmente non può che scaturire una verità relativa ( e non assoluta) avendo la prova una funzione retorica-persuasiva ossia finalizzata a creare nella mente del giudice una credenza intorno alla verità o falsità dei fatti. L’obbligazione fondamentale del difensore consiste, infatti, nel cercare di far prevalere , con ogni mezzo, ovviamente legittimo, la posizione del proprio cliente servendosi delle prove essenzialmente per permettere allo stesso di essere dichiarato vincitore nella contesa processuale, in un contesto, dunque, in cui il giudice è chiamato all’accertamento dei fatti controversi, attraverso l’assunzione delle prove funzionalmente alla definizione della lite ed in prospettiva della certezza dei rapporti giuridici. Ciò ha fatto dire ad autorevole dottrina ( Reali, L’istruzione probatoria nel processo ordinario ed in quello del lavoro, in Riv. Trim.2011, 396) che “la verità è circoscritta nei confini del principio del contraddittorio, della parità tra le parti, della terzietà ed imparzialità del giudice e della ragionevole durata”

Detto questo e concentrando l’attenzione sulla esigenza di specificità della articolazione della prova orale va subito richiamato il referente normativo rappresentato dall’art 244 cpc ( “ la prova per testimoni deve essere dedotta mediante la indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuno di essi deve essere interrogato”) sulla esatta interpretazione del quale è intervenuta di recente la Corte Regolatrice, con sentenza 19.01.2018 n. 1294, che ha avuto il merito di fare chiarezza in subiecta materia, fornendo agli operatori del diritto precise ed utili coordinate orientative.

2.Sulla indicazione specifica dei fatti

L’onere di indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, come si sa, è imposto per consentire alle controparti una congrua difesa e, se del caso, per formulare una prova contraria, ma anche per permettere al Giudice di farsi una idea ed esprimere il proprio punto di vista in merito alla rilevanza ed ammissibilità della capitolazione istruttoria.

Evidentemente si tratta di due parametri a disposizione del Giudice per la verifica, nel caso concreto, della ricorrenza del requisito della specificità di cui si è detto.

La giurisprudenza ha fornito chiare indicazioni attraverso le quali valutare se detto requisito può dirsi rispettato, che si compendiano secondo il seguente schema.

  1. I fatti debbono essere esposti nei loro elementi essenziali non essendo necessario, per dirsi soddisfatto il requisito della specificità, che siano precisati in tutti i loro minuti dettagli, non potendosi eccedere, peraltro, nel formalismo.

  2. I fatti, oltre ad essere dedotti in capitoli specifici e determinati, devono essere collocati, per quanto attiene il relativo svolgimento, nel tempo e nello spazio.

  3. I fatti devono essere esposti in modo tale, se confermati, da confortare la tesi da parte di colui che li ha dedotti ed inoltre essi vanno descritti congruamente al fine di consentire alla controparte di formulare una prova contraria (v. ex multis Cass. 3728/1987, Cass. 3635/1989, Cass. 12642/2003, Cass. 11844/2006, Cass. 2201/2007, Cass. 12292/2011, Cass. 1808/2015).

È bene ricordare che il giudizio sulla idoneità della specificazione dei fatti va condotto non solo alla stregua della letterale formulazione dei capitoli medesimi, ma anche ponendo il loro contenuto in relazione agli altri fatti di causa ed alle deduzioni dei contendenti (Cass. 10272/1995, Cass. 2201/2007, Cass. 3280/2008).

3. Sulla articolazione istruttoria c.d. valutativa

Altro aspetto importante è che la capitolazione va articolata in relazione a fatti obiettivi e non può essere formulata al fine di ottenere dal teste un mero giudizio del fatto, scevro da riferimento oggettivi. Ed, invero, nelle aule di giustizia non c’è giorno in cui non si discuta della inammissibilità di una testimonianza valutativa.

Orbene, in materia si dibatte in dottrina e giurisprudenza sulla nota dicotomia “fatto-giudizio”, laddove è richiesto al teste (soggetto terzo estraneo alla lite) di narrare e descrivere un fatto (rilevante per il decidere) accaduto in precedenza e percepito in modo diretto con i propri sensi “de visu vel auditu” (così L. P. Comoglio -Le prove civili- Torino 2004 p. 419), con esclusione, quindi, di qualsiasi apprezzamento, giudizio o valutazione personale.

E’ indubbio che il Giudice debba essere compiutamente edotto di tutti quegli elementi necessari a ricostruire il fatto storico, depurato da ogni e qualsiasi giudizio personale che potrebbe distorcere la realtà del fatto stesso.

Purtuttavia non sempre è agevole stabilire fino a quando possa parlarsi di riferimento ad un fatto e quando al contrario ricorra l’ipotesi di giudizio personale del fatto narrato

Alcuni esempi potrebbero contribuire a chiarire meglio la questione.

In un caso di risarcimento del danno arrecato all’immobile del conduttore che ha rilasciato il bene, sarebbe inammissibile la prova “vero che l’appartamento è stato riconsegnato da Tizio completamente danneggiato” ma non quella articolata nel seguente modo “vero che l’appartamento al momento della consegna si presentava mancante della parte della camera da letto, il lavandino del bagno spaccato in due, il vetro della finestra della cucina rotto in più parti e così via”.

Si potrebbero fare altri esempi con l’avvertenza che la distinzione tra “fatto e giudizio” nel momento in cui si va ad articolare una prova testimoniale non va inteso in senso rigoroso dovendo riferire i testi solo il fatto astenendosi dalle valutazioni in quanto spesso i primi non posso scindersi dai secondi.

3.1 ….. e sulla ammissibilità dei c.d. apprezzamenti inscindibili dal fatto. Esempi

Di qui il tema della ammissibilità dei c.d. apprezzamenti inscindibili dal fatto, ossia di quegli apprezzamenti di assoluta immediatezza, talmente connessi con la percezione del soggetto che ha assistito al fatto dacché non possono esserne separati in quanto costituiscono un tutt’uno con il resoconto dello stesso fatto narrato dal teste.

Il principio si trova affermato dalla giurisprudenza secondo cui “la prova testimoniale deve avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi ma fatti obiettivi, deve essere inteso nel senso che detta prova non può tradursi in una interpretazione del tutto soggettiva o indiretta ed in apprezzamenti tecnici o giudizi del fatto, ma ciò non comporta, peraltro, che egli non possa riferire anche il convincimento sul fatto e sulle sue modalità derivatogli dalla sua stessa percezione ed esprimere gli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalle deposizioni dei fatti (v. ex multis Cass. 2270/1998, Cass. 3505/1999, Cass. 5/2001, Cass. 5227/2001, Cass. 1937/2003, Cass. 2166/2001, Cass. 9526/2009).

Per capire meglio il significato del principio testé ricordato, è bene riportare alcuni casi esaminati dai Giudici di legittimità che sono, per così dire, emblematici nell’ambito della problematica posta dal divieto della prova valutativa.

Così è stato ritenuto (Cass. 1937/2003 ma anche Cass. 2270/1998) che il Giudice di merito potesse avvalersi di una testimonianza circa la velocità tenuta da un veicolo coinvolto in un incidente stradale, giacché il testimone è chiamato a formulare un giudizio verità e non di valore (altro criterio aggiunto ultimamente dalla Corte Regolatrice in argomento) e poiché sono sempre consentiti gli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalla esposizione dei fatti, salva la valutazione del Giudice sulla attendibilità del teste.

Agli apprezzamenti di assoluta immediatezza praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico si riferisce la Cassazione in materia di rapporto di lavoro laddove è stata esclusa la inammissibilità delle prove espletate per l’accertamento della natura subordinata od autonoma della prestazione lavorativa di un soggetto che era stato visto svolgere mansioni “semplici e ripetitive” (Cass. S.U. 5227/2001).

Sempre in materia di lavoro la Corte Regolatrice ha opinato per l’ammissibilità di una prova per testi, in fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la cui capitolazione si incentrava sulla sussistenza o meno di una riorganizzazione della attività lavorativa – in particolare della distribuzione tra le varie posizioni di lavoro delle fasi produttive- in una piccola azienda (Cass. 5/2001).

Ma il caso più significativo giudicare se una capitolazione istruttoria possa o meno sostanziare una valutazione inammissibile, è fornito dalla vicenda dei danni richiesti da una signora nei confronti di un Comune friulano resosi responsabile della caduta, all’interno di un edificio storico, di proprietà municipale, riconducibile, a dire della donna, alla “scivolosità” del pavimento, che era stato “poco prima pulito e ricoperto con un enorme quantità di materiale per lucidare i pavimenti a base di cera” (Cass. 9526/2009).

Orbene, i Giudici di merito avevano escluso che le dichiarazioni testimoniali su cui si fondava la domanda “fossero ammissibili” essendo stato espresso un giudizio laddove avevano riferito che il pavimento era “scivoloso” (determinando tale condizione la responsabilità del Comune) tant’è che anche il teste “aveva rischiato di cadere”.

Approdata la causa in Cassazione, gli Ermellini, proprio in ragione dei sopraesposti principi, davano ragione alla donna, annullando la sentenza di Appello, che a sua volta aveva confermato quella di rigetto della domanda emessa dal Tribunale, stabilendo che “in materia di prova testimoniale, benché i giudizi non possono costituire oggetto di prova, essendo vietato domandare ai testi la valutazione dei fatti, laddove si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico, essi possono concorrere al convincimento del giudice”.

Dalla analisi delle pronunce di legittimità possono ricavarsi alcuni “minimi comuni denominatori” che l’operatore del diritto dovrebbe tenere presente nel momento in cui formula la propria istanza istruttoria.

Essi possono così compendiarsi:

  1. l’apprezzamento inscindibile, di cui sopra si è detto, deve essere “elementare ed immediato”, ossia non deve necessitare forme di rielaborazione di tipo tecnico/soggettivo;

  2. l’apprezzamento deve seguire immediatamente il fatto oggetto di prova di talché il primo diventi consequenziale al secondo (Cass. 2435/90);

  3. l’apprezzamento deve essere il frutto di nozioni comuni del teste (v. Cass. 5227/2001) proprie dell’uomo medio;

  4. l’apprezzamento deve essere simultaneo alla percezione, cioè deve trattarsi di un giudizio che si forma nel momento stesso in cui si assiste ad un determinato fatto.

Se questo è, con riferimento ai c.d. apprezzamenti tecnici, quali possono essere la velocità dell’automezzo che è stato causa di un incidente stradale (v. anche Cass. 1173/1993, Cass. 4111/1995) o la difettosa illuminazione di una strada riferibile dal teste (nel caso deciso da Cass. 5460/1983), non può sottacersi che tale indirizzo non appare pienamente condivisibile soprattutto nei casi appena ricordati laddove la percezione di una velocità di 70/75 kmh riferita specificatamente dal teste- nella fattispecie suddetta (ma anche quella della difettosa luminosità)- può variare da soggetto a soggetto anche in considerazione dell’età del testimone.

Altra particolare questione attiene ai c.d. apprezzamenti giuridici come quando si chiede al teste, ad esempio in una domanda di usucapione, di esprimersi sul possesso di un bene immobile. Le regole appena indicate, secondo la S.C. (v. ex multis 4370/1996) impongono che “in tema di prova del possesso, consistendo questo in una relazione tra il soggetto e la cosa, può formare oggetto di testimonianza l’attività attraverso la quale il potere si manifesta, non il risultato del suo esercizio nel quale il possesso di identifica”.

4. Sulla prova orale c.d. negativa

Dunque la prova per testi deve avere per oggetto fatti specifici ed i capitoli prova non devono essere formulati in modo da ottenere dal teste un giudizio ma neanche in senso negativo.

È appena il caso di ricordare, a tale ultimo riguardo, che una risalente decisione della Corte Regolatrice (Cass. 5744/1993) ha sottolineato come non esistano fatti negativi e cioè quei fatti che si assume non siano avvenuti e cioè fatti non accaduti e quindi non fatti.

Per questo non sarebbe possibile la prova degli stessi finché non è possibile dare la dimostrazione di un non accadimento.

Famoso, al riguardo, quanto diceva un famoso filosofo vissuto in epoca antica (Parmenide) secondo il quale “ciò che è è e non può non essere; ciò che non è non è e non può essere”.

Purtuttavia, ha chiarito la giurisprudenza di legittimità e di merito, con indirizzo costante, che, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data con uno specifico fatto positivo contrario od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.

Ed, invero, l’onere della prova su chi agisce o resiste in giudizio, non subisce deroga quando abbia ad oggetto fatti negativi. In questo senso Cass 14854/2013, ma analogo principio è stato affermato, per citare le più recenti decisioni, da Cass. 11757/2013, Cass. 9201/2015 e tra i Giudici di merito, da Tribunale di Vibo Valentia 145/2016, Tribunale di Bari 2355/2016, Tribunale di Massa 567/2016, Tribunale di Grosseto 792/2017, Tribunale di Torre Annunziata 1798/2017, fino, da ultimo, a Tribunale di Busto Arsizio 298/2018 (tutte in De Jure Giuffrè 2016-2017-2018).

A questo punto vanno affrontate, in particolare, le questioni esaminate da Cass. 19/01/2018 n° 1294 la quale interviene in un contesto in cui l’orientamento della giurisprudenza non appare univoco.

5. La mancata specificazione dei fatti, nel senso sopra chiarito, comporta una nullità rilevabile d’ufficio o no?

Va subito detto che la sentenza della S.C. 1294/2018 ha il merito di portare valore aggiunto nell’ambito di un dibattito in cui si è di nuovo affermato (v. Cass. 2492/2016) “che le formalità relative alle modalità di deduzione ed ammissione della prova per testi, sono stabilite non per ragioni di ordine pubblico, ma per la tutela degli interessi di parte; pertanto la nullità derivante dalla violazione delle stesse formalità sono relative e non rilevabili di ufficio dal Giudice, ma devono essere eccepite nella prima udienza successiva a quella in cui si sono verificate, nel caso in cui la parte interessata non era presente all’udienza, mentre se era presente all’escussione della prova ed aveva assistito all’atto istruttorio senza opposizione, la nullità ove esistente deve considerarsi sanata”.

Orbene, a ben vedere, la vicenda processuale in cui interviene Cass. 2492/2016, aveva riguardato non tanto l’ipotesi di mancata deduzione in modo specifico della prova per testi, ma la diversa ipotesi in cui era stata superata ogni questione relativa al vaglio di ammissibilità di detta prova, riconducendosi il vizio di nullità della stessa al momento successivo della sua assunzione . Questa, infatti, era stata effettuata non attraverso la lettura di separati capitoli e la verbalizzazione delle risposte, ma attraverso lettura e la conferma di quelle già fornite dagli stessi testi alle udienze svoltesi nel giudizio di primo grado, definito con sentenza poi dichiarata nulla dalla Corte di Appello, trattandosi di una nullità relativa e sanata poiché la parte non aveva sollevato alcuna eccezione all’udienza di espletamento delle prove.

Ma il principio della non rilevabilità d’ufficio di un vizio attinente la fase di assunzione delle prove per testi si trova affermato anche in relazione alla nullità della testimonianza resa da persona incapace ex art. 256 c.p.c.: tale condizione “deve essere contestata subito dopo l’espletamento della prova e, qualora detta eccezione sia respinta o ignorata dal Giudice di prime cure, la parte interessata ha l’onere di riproporla anche nei successivi atti di impugnazione, compreso il giudizio di legittimità nel quale va altresì allegata la dimostrazione della tempestività della suddetta eccezione, in difetto, dovendo ritenersi sanata la eventuale nullità derivante dall’incapacità dei testi per irritualità della relativa eccezione” (così Cass. 23896/2016, ma v. anche 21395/2014).

Ed ancora di una nullità sanabile per acquiescenza della parte interessata, non essendo rilevabile d’ufficio, si parla nella ipotesi in cui il Giudice, avvalendosi della facoltà di cui all’art. 253 c.p.c., rivolgendo al teste le domande utili a chiarire i fatti oggetto della sua deposizione, travalica il limite rappresentato dal divieto di supplire alle deficienze del mezzo istruttorio proposto ed ammesso (Cass. 12192/2015). Infine il principio della non rilevabilità d’ufficio di una ipotesi di inammissibilità della prova per testi risulta mitigato “quando la prova stessa verta su apprezzamenti e valutazione del testimone piuttosto che su fatti specifici a conoscenza dello stesso: infatti, poiché il Giudice non può legare il suo convincimento ai giudizi dei testi, la predetta prova resterebbe comunque inutilizzabile anche in assenza di una eccezione di parte (v. Cass. 8620/1996).

Abbiamo voluto richiamare detti concetti per dire come la S.C. nella sentenza 1294/2018 – superando i vecchi schemi che individuavano il fondamento delle regole che sovrintendono all’ammissione di una prova per testi non in un principio di ordine pubblico ma piuttosto a motivo essenzialmente di tutela dell’interesse privatistico- abbia argutamente osservato che la “specifica indicazione dei fatti non attiene al piano di validità della prova ma a quello preliminare del giudizio di rilevanza”.

Ed invero, la mancata specificazione dei fatti impedisce al Giudice di apprezzare se il mezzo istruttorio sia concludente e/o pertinente, e, quindi, di esercitare il potere di direzione del processo. Di qui l’affermazione che l’apprezzamento della rilevanza della prova ha carattere ordinatorio processuale corrispondente” alla esigenza di di evitare una attività che, in quanto relativa al mezzo di prova rilevante, contrasta con esigenze di economia e di ragionevole durata del processo”.

La specificità nella indicazione dei fatti soddisfa l’esigenza del Giudice di stabilire, in relazione al particolare thema probandum della lite, se i fatti indicati ad oggetto della prova siano rilevanti ai fini del decidere, ma soddisfa anche l’esigenza della controparte, poiché in capo ad essa nascono l’interesse ed il potere di controdedurre in quanto la prova va dedotta in modo che se ne possa apprezzare la rilevanza”.

Il Giudice, quindi, non ammette la prova in quanto, non potendone valutare la rilevanza, non può far altro che dichiararla” .

Trattasi, dunque, non della inammissibilità conseguente ad una decadenza o ad una regola di validità dell’atto processuale, come quella della capacità a testimoniare, ma della inammissibilità relativa al preliminare giudizio, rispetto a quello di nullità, di rilevanza stessa del mezzo di prova”.

In buona sostanza, chiarisce la S.C. che “mentre la violazione di una regola di validità quale quella di cui all’art. 246 c.p.c. (incapacità teste), posta a tutela dell’interesse delle parti, ha carattere relativo ed è rilevabile solo su eccezione delle parti, l’apprezzamento in ordine alla specifica indicazione dei fatti da provare si colloca su un piano preliminare, in quanto relativo alla rilevanza della prova e, dunque, l’eventuale mancanza della specifica indicazione resta rilevabile d’ufficio.”(così testualmente v. parte motiva di Cass.1294/2018).

5. Sulla inammissibilità della prova relativa alle modalità di indicazione dei testimoni.

Per quanto attiene l’indicazione dei nominativi dei testi da escutere, l’art. 244 c.p.c. nulla dice, in particolare sulle relative modalità

L’abrogazione degli ultimi due commi dell’art. 244 c.p.c., operata con la legge 353/1990, impedisce attualmente al Giudice di supplire alle lacune delle parti concedendo alle stesse un termine per la indicazione del nominativo dei testi, con la conseguenza che, in caso di omessa specificazione, la prova sarebbe inammissibile ed il relativo vizio rilevabile d’ufficio.

Diversamente dalla mancata indicazione è la incompleta specificazione dei testimoni che non darebbe luogo ad alcuna invalidità e conseguente inammissibilità.

La domanda è se possa considerarsi sufficiente la indicazione delle generalità del teste (nome e cognome) o se, invece, sia richiesta, a pena di inammissibilità, anche l’indicazione della residenza o di altri elementi quali la posizione del teste in relazione al rapporto fattuale, la relazione di colleganza con le parti, i casi di omonimia ecc.

Ricordato che la Corte Costituzionale, con Sentenza n° 75/1993, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 244 c.p.c. nella parte in cui non prescrive alla intimante la indicazione della residenza del teste, va segnalata una pronuncia della Cassazione n° 26058/2013 che offre importanti spunti per rispondere al complicato quesito, stante la genericità della formulazione dell’art. 244 c.p.c.

Orbene, afferma la Corte Regolatrice che l’art. 244 c.p.c. va letto in combinato disposto con l’art. 156 c.p.c. consentendo di ritenere che l’ammissibilità istruttoria possa valutarsi in modo meno rigido.

Siccome a norma dell’art. 156 c.p.c. non può essere pronunciata alcuna nullità, se l’atto ha raggiunto il suo scopo, dato che la giustificazione di detta norma si risolve nel garantire la massima conservazione degli atti processuali invalidi, la S.C. ha affermato che il teste deve essere indicato in maniera sufficientemente determinata o determinabile e che una imperfetta o incompleta indicazione degli elementi identificativi (come nome, cognome, residenza) è idoneo ad arrecare un vulnus alla difesa ed al contraddittorio solo se provochi in concreto la citazione o l’assunzione come teste di un soggetto realmente diverso da quello previamente indicato, così da spiazzare la aspettativa di controparte.

Tenendo conto di tale principio, una valutazione di inammissibilità, allora, potrebbe essere fatta dal Giudice ex post e non ex ante ossia allorché venga chiamata a deporre una persona che al momento della citazione o dell’assunzione si scopre non essere quella indicata. Ma una valutazione del genere dovrebbe essere sollecitata dalla parte e non potrebbe rilevarsi d’ufficio (al pari di quanto avviene nei casi di incapacità del teste ex art. 246 c.p.c.).

Si segnala anche che secondo altra decisione della S.C. (3655/1998) nell’art. 244 c.p.c. si richiede la precisa indicazione del fatto e non la posizione del teste in ordine allo stesso.

Coerente con tale interpretazione è poi la pronuncia della S.C. 1519/2000 secondo cui la indicazione dei testimoni può avvenire anche mediante individuazione indiretta di essi tramite la funzione espletata nello Ufficio od Ente di cui fanno parte, a condizione che questo consenta una sicura identificazione della persona che si intende chiamare come testimone, onde consentire alla controparte, nel rispetto del contraddittorio, di individuare i testi dei quali l’istante intende avvalersi.

Settembre 2018 Avv. Antonio Arseni – Foro di Civitavecchia