“Il datore di lavoro che ritardi ingiustificatamente l’assunzione del lavoratore, è tenuto a risarcire il danno che questi ha subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza datoriale a far data dalla domanda di assunzione”.
Questo in pratica il principio di diritto affermato nella recente decisione della Corte Regolatrice 9193/2018 che riprende un proprio e risalente orientamento che aveva posto in luce come il pregiudizio subito dal lavoratore non tempestivamente assunto debba essere determinato, senza necessità di una specifica prova da parte del lavoratore, sulla base del complesso retributivo che il richiedente avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto, salvo che il datore di lavoro adempia all’onere, interamente gravante su di lui, di provare che, nelle more, il lavoratore abbia avuto altra attività lavorativa” (Sez. L, Sentenza n. 7858 del 26/03/2008; nello stesso senso Sez. L, Sentenza n. 15838 del 11/11/2002; Sez. 3, Sentenza n. 10111 del 17/04/2008; Sez. L, Sentenza n. 345
La sentenza de qua trae origine dalla vicenda di una donna che dopo aver partecipato ad un concorso pubblico indetto da Poste Italiane, veniva collocata al 625 posto nella graduatoria degli idonei, pur avendo avuto diritto -essendo orfana di padre, deceduto per infortunio sul lavoro –ad essere inserita nella graduatoria dei vincitori.
Proposto allora ricorso straordinario al Capo dello Stato e successivamente, sulla base del suo accoglimento, la donna chiedeva al giudice ordinario la condanna della Società, a suo tempo pubblica, al risarcimento dei danni patiti a seguito della ritardata assunzione, quantificabili nella mancata retribuzione percepita. Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda, che veniva confermata dalla Corte D’Appello.
La questione approdava in Cassazione su ricorso delle Poste Italiane che affidava a il gravame a plurimi motivi.
Nello specifico, con il primo motivo del ricorso Poste italiane lamentava la violazione degli art. 409,420, 426, 427, e 439 c.p.c. sostenendo il giudizio era stato illegittimamente celebrato col rito ordinario, anzichè con quello previsto per le controversie di lavoro e che questo errore avesse pertanto creato un vulnus al suo diritto di difesa, perchè se il giudizio fosse stato celebrato col rito del lavoro, “la domanda avanzata dalla signora G. non avrebbe potuto trovare accoglimento”, dal momento che l’attrice nei suoi scritti difensivi non aveva compiutamente allegato tute le circostanze di fatto necessarie e decisive ai fini dell’accoglimento della domanda.
La S.C. ritiene il motivo infondato precisando che “ domanda proposta dall’attrice era una ordinaria domanda di risarcimento del danno da fatto illecito, che correttamente era stata istruita col rito ordinario. , Secondo la Corte ,come deciso dalla stessa , in fattispecie molto simile (Sez. U, Sentenza n. 790 del 17/11/1999,) “ …nel risarcimento del danno effetto della ritardata assunzione (…), viene in evidenza una situazione che precede la costituzione del rapporto di pubblico impiego; nè in senso contrario assume alcun rilievo il fatto che come parametro del danno sia indicato l’ammontare delle retribuzioni perse a causa della non tempestiva instaurazione del rapporto di impiego”);nel caso di specie inoltre non esisteva il lamentato vulnus del diritto alla difesa in quanto qualora il Tribunale, investito di una controversia soggetta al rito delle controversie di lavoro (…), avesse erroneamente continuato ad applicare le norme del codice di procedura civile per le cause con il rito ordinario, senza applicare l’art. 426 c.p.c., e disporre il passaggio da detto rito a quello speciale, tale sentenza non sarebbe affetta da nullità assoluta, residuando al giudice di appello il solo l’obbligo di disporre il passaggio dal rito ordinario al rito speciale ai sensi dell’art. 439 c.p.c.” (così la sentenza capostipite, ovvero Sez. L, Sentenza n. 3519 del 28/05/1980; in seguito ex multis, nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 5433 del 20/08/1983). Pertanto, se la Corte d’appello avesse ritenuto di dovere mutare il rito, avrebbe dovuto fissare all’attrice un termine per integrare le sue difese, ed è ragionevole ritenere che qualsiasi menda contenuta nell’atto di citazione sarebbe stata sanata dall’attrice avvalendosi di tale termine, e nessun “vantaggio” la ricorrente avrebbe tratto da tale scelta istruttoria.
Con il secondo motivo di ricorso, formalmente unitario ma contenente due censure in cui la ricorrente lamentava la violazione degli art. 115 cp.c. e 2697 cc, sostenevano le Poste Italiane che non vi era prova che laddove si fosse tenuto conto della condizione di orfana della donna. iscritta nelle liste di collocamento, ella sarebbe stata certamente assunta . L’accoglimento del ricorso straordinario al Capo dello Stato proposto dall’attrice avverso il decreto di approvazione della graduatoria poteva costituire al massimo un indizio e non la prova .
In subordine lamentava che l’attrice aveva formulato solo una domanda “di tipo retributivo e non risarcitoria”e che il Giudice di appello aveva erroneamente ritenuto dimostrata l’esistenza del danno.
Quanto alla prima censura la S.C. , dichiara il motivo inammissibile evidenziando che con esso “ la ricorrente chiedeva alla Corte di valutare il provvedimento amministrativo (prova documentale) in modo diverso da quanto ritenuto dal giudice di merito, sollecitando, quindi, una valutazione delle prove ulteriore e diversa, rispetto a quella compiuta da detto giudice. come tale sottratta al sindacato di legittimità per i noti e pacifici principi in materia.
Sempre in argomento di prova e sulla specifica questione del riparto del relativo onere, la S.C. ritiene infondata la doglianza della ricorrente Poste Italiane circa il mancato assolvimento della prova da parte della donna in ordine alla sussistenza degli ulteriori requisiti (oltre la sua condizione di orfana) cui la legge subordina l’accesso privilegiato al lavoro: ed in particolare se la pianta organica della Poste Italiane avesse o non avesse già impiegato il 15% di dipendenti rientranti nelle categorie privilegiate previste dalla L. n. 485 del 1968, cit..
Tale circostanza, precisa la S.C. e ” era un fatto impeditivo della pretesa attorea, e come tale doveva essere provato da chi lo invocava, non certo dall’attrice”.
Mentre fatto costitutivo della pretesa attorea era, oltre ovviamente la commissione del fatto illecito, la sua qualità di avente diritto all’assunzione privilegiata, ai sensi della ricordata L. n. 482 del 1968 e la ricorrenza di tale circostanza era stata dimostrata dall’accoglimento del ricorso amministrativo straordinario avverso il decreto di approvazione della graduatoria .
Nella sua puntuale motivazione la S. C. con riferimento ai due parametri normativi invocati (art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.) dichiara infondato il motivo addotto dalla ricorrente , nella parte in cui lamentava che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto dimostrata l’esistenza del danno, ritenendo quanto al principio sostanziale dell’onere della prova che la Corte di appello” non avesse invertito l’onere della prova” in quanto aveva ritenuto che il danno patito dall’attrice fosse pari alle retribuzioni perdute, ed ha moltiplicato per undici la retribuzione annua teoricamente spettante alla vittima.
Per quanto attiene, invece, la lamentata violazione dell’art. 115 c.p.c., i Giudici di legittimità ricordano che “ la violazione di tale norma può essere dedotta come vizio di legittimità solo quando il giudice abbia dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa al di fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche quando il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre” . (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).
La Corte ritiene inoltre infondato il terzo motivo di ricorso con il quale la ricorrente deduceva pertanto che la Corte d’appello avrebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in quanto erroneamente aveva qualificato la domanda proposta dall’attrice come una domanda di risarcimento del danno da perdita delle retribuzioni. L’attrice, infatti, nell’atto di citazione aveva domandato il risarcimento dei danni derivanti “da perdita di chances”.
I Giudici sul punto evidenziano che Corte d’appello, con interpretazione ineccepibile,correttamente “non si era fermata alle mere formule adottate dalla ricorrente, ma aveva valutato l’atto nel suo complesso, ed era giunta alla conclusione che con la sua domanda l’attrice intendeva essere risarcita delle retribuzioni perdute per il fatto di non essere stata tempestivamente collocata nella graduatoria dei vincitori.
La lesione di diritti patrimoniali può determinare conseguenze non patrimoniali (come nel caso della violazione del diritto d’autore), e viceversa (come nel caso del danno alla salute), ed anzi sono infiniti i diritti dalla cui lesione può derivare un risarcimento commisurato alla retribuzione: dal diritto alla salute a quello alla reputazione.
Diritto all’assunzione o alla retribuzione?
Anche il quarto motivo del ricorso viene ritenuto infondato. Con esso la ricorrente Poste Italiane lamentava la violazione dell’art. 2043 c.c.. sostenendo che l’attrice con la propria domanda non aveva affatto allegato l’esistenza di un danno ingiusto. Soggiunge che il danno patito dall’attrice si sarebbe potuto liquidare in misura pari alle retribuzioni perdute solo se l’attrice, al momento della domanda, già fosse titolare del diritto alla retribuzione. Ma poichè il rapporto di lavoro non era stato mai costituito, il diritto leso non era il diritto alla retribuzione ma il diritto all’assunzione, e la lesione di tale ultimo diritto non si sarebbe potuto liquidare in misura pari alle retribuzioni perdute
La S.C. ritiene invece che la liquidazione del danno lamentato dall’attrice non poteva che avvenire in via equitativa, ex articolo 1226 c.c.; la liquidazione equitativa è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità salvo il caso di manifesta irrazionalità.
In ogni caso il “danno”, in linea generale, è la perdita di una utilità (l’id quod interest), ed è evidente che, in caso di utile collocamento nella graduatoria del concorso, l’attrice avrebbe percepito la retribuzione: dunque non fu irragionevole liquidare il danno in misura pari a quest’ultima.
Secondo la S. C. i due precedenti invocati da Poste Italiane, a sostegno del proprio quarto motivo di ricorso (Sez. L, Sentenza n.18709 del 06/08/2013, e Sez. 3, Sentenza n. 26282 del 14/12/2007 ) non inficiano tali considerazioni .
Il primo di tali precedenti non è pertinente: nel caso deciso da Sez. L, Sentenza n. 18709 del 06/08/2013, infatti, il ricorso di Poste Italiane, in un caso analogo, venne accolto per avere il giudice di merito erroneamente ritenuto provato l’an debeatur, e la Corte di Cassazione non affrontò il tema dei criteri di liquidazione del danno.
Il secondo dei precedenti invocati (Cass.26282/07, cit.), è espressione di un orientamento isolato e minoritario, al quale non può darsi continuità
Secondo la distinzione teorica contenuta nel precedente giurisprudenziale invocato dalla società ricorrente a cui la Corte non ha ritenuto di dare continuità
(a) in caso di lesione del diritto alla retribuzione, sorge per il danneggiato il diritto al risarcimento di un danno pari alla retribuzione non percepita;
(b) in caso di lesione del diritto all’assunzione, sorge per il danneggiato il diritto al risarcimento di un danno che non può essere pari alla retribuzione, perchè “di lucro cessante può parlarsi laddove il lucro vi sia stato e sia cessato in conseguenza del fatto illecito; mentre in questo caso la mancanza di un rapporto di lavoro esclude che sia esistito un originario guadagno, derivante dal rapporto di lavoro con la P.A., cessato per fatto illecito della stessa (come nel diverso caso, correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, in cui si sia verificata l’illegittima interruzione di un rapporto di lavoro già perfezionato ed in corso” ,così Cass. 26282/07, in motivazione).
Questo essendo il fondamento teorico del principio invocato dalla Poste Italiane, il Supremo . Collegio ha ritenuto che in esso si annidassero due affermazioni non convincenti alle quali non poteva essere data continuità.
La prima affermazione non condivisibile è quella secondo cui “di lucro cessante può parlarsi laddove il lucro vi sia stato e sia cessato”.
Il danno da lucro cessante, infatti, per secolare tradizione può essere passato o futuro, come nell’ipotesi – ad esempio dell’infortunio che privi un minorenne della capacità di lavoro.
Il secondo profilo per il quale la motivazione di Cass. 26282/07 non è condivisibile è che essa parrebbe confondere il diritto leso dall’illecito, col danno che ne consegue.
Non è affatto vero che, per essere risarcito in misura pari alle retribuzioni perdute, debba essere necessariamente leso il “diritto alla retribuzione” vantato dalla vittima dell’illecito. La lesione del diritto è infatti il presupposto del danno, non il danno.Il danno giuridico è, come accennato, la perdita dell’id quod interest causata dal fatto illecito o dall’inadempimento, e non vi è nessuna implicazione bilaterale tra natura del diritto leso e natura del danno patito. La lesione di diritti patrimoniali può determinare conseguenze non patrimoniali (come nel caso della violazione del diritto d’autore), e viceversa (come nel caso del danno alla salute),ed anzi sono infiniti i diritti dalla cui lesione può derivare un risarcimento commisurato alla retribuzione: dal diritto alla salute a quello alla reputazione.
La Cassazione precisa che ai fini della risarcibilità non importa che il diritto leso dal fatto illecito fosse il “diritto all’assunzione”, e non il “diritto alla retribuzione” ; la lesione del primo diritto ha cagionato la perduta possibilità di guadagnare, ossia il lucro cessante, che deve essere commisurato alle retribuzioni perdute.
Nel nostro caso, pertanto, a nulla rileva che il diritto leso dal fatto illecito fosse il “diritto all’assunzione”, e non il “diritto alla retribuzione”. La lesione del diritto all’assunzione ha provocato per conseguenza la perduta possibilità di guadagnare, e il danno da perduta possibilità di guadagnare (lucro cessante) va commisurato alle retribuzioni perdute.
La S.C.rigetta pertanto il ricorso richiamando il summenzionato orientamento giurisprudenziale dove ha ripetutamente affermato che “il datore di lavoro, che ritardi ingiustificatamente l’assunzione del lavoratore, è tenuto a risarcire il danno che questi ha subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza datoriale, a far data dalla domanda di assunzione. Tale pregiudizio deve essere determinato, senza necessità di una specifica prova da parte del lavoratore, sulla base del complesso retributivo che il richiedente avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto, salvo che il datore di lavoro adempia all’onere, interamente gravante su di lui, di provare che, nelle more, il lavoratore abbia avuto altra attività lavorativa” (Sez. L, Sentenza n. 7858 del 26/03/2008; nello stesso senso Sez. L, Sentenza n. 15838 del 11/11/2002; Sez. 3, Sentenza n. 10111 del 17/04/2008; Sez. L, Sentenza n. 345 del 16/01/1987).
In conclusione nel caso di specie , a pagare il risarcimento è Poste Italiane Spa, ma la vicenda risale al concorso bandito nel 1988 quindi prima della privatizzazione (Azienda Poste e Telecomunicazione).
Fatto costitutivo della pretesa dell’attrice era la sua qualità di avente diritto all’assunzione privilegiata ex legge 482 del 68 che se riconosciuto avrebbe fatto si che la stessa venisse fin da subito assunta alle Poste anziché attendere 11 anni. Il diritto leso dal fatto illecito di Poste Italiane era il “diritto all’assunzione”, e non il “diritto alla retribuzione”. La lesione del diritto all’assunzione, presupposto del danno , ha provocato per conseguenza la perduta possibilità di guadagnare, e il danno da perduta possibilità di guadagnare (lucro cessante ) va commisurato in via equitativa alle retribuzione perdute medio tempore.Tale pregiudizio deve essere determinato, senza necessità di una specifica prova da parte del lavoratore, sulla base del complesso retributivo che il richiedente avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto, salvo che il datore di lavoro provi che, nelle more, il lavoratore abbia avuto un’altra attività lavorativa.
A maggiore ragione l’ormai risalente ma consolidato principio giurisprudenziale ritiene il datore di lavoro , che ritardi ingiustificatamente l’assunzione del lavoratore – vincitore di un concorso da esso indetto – obbligato al risarcimento del danno da questi subito, ravvisabile nelle retribuzioni perdute a far data dalla domanda di assunzione (da ultimo Cass. civ. S.U. 4 aprile 2017 n. 8687). Secondo la Corte, chi vince un concorso pubblico, indipendentemente dalla nomina, acquisisce un vero e proprio diritto all’assunzione da parte dell’amministrazione che ha pubblicato il bando di concorso. La sua aspettativa di ottenere un’entrata economica fissa, grazie allo stipendio da dipendente, va quindi tutelata.
Luglio 2018 -Avv. Giuseppa Pirrone -Foro Civitavecchia