Il preesistente rapporto coniugale, estinto con il divorzio, rileva solo a seguito dell’accertata mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità oggettiva di procurarseli, parametrata non già al tenore di vita ma alla indipendenza economica di chi richiede l’assegno. Il nuovo orientamento giurisprudenziale non incide sul giudicato a meno che non si allegano fatti sopravvenuti idonei a fondare la domanda di revisione dell’assegno attraverso il relativo giudizio in cui il giudice potrà ( e non dovrà) valutare l’applicabilità, nella specie, della nuova prospettiva interpretativa.
Questi, sinteticamente, i principi che si ricavano da una cospicua giurisprudenza di merito e di legittimità formatasi successivamente al reviriment della Corte Regolatrice dello scorso mese di maggio.
Note sono le motivazioni che hanno condotto i Giudici di Palazzo Cavour ad aggiornare un orientamento che resisteva da circa un quarto di secolo.
E’ bene ripercorrerle, brevemente, per meglio comprendere la portata della storica decisione ed i conseguenti effetti sugli assegni divorzili riconosciuti in base ai precedenti parametri esegetici.
Dunque, Cassazione dicit che, una volta estinto il rapporto matrimoniale, il Giudice del divorzio, al quale viene richiesto l’assegno divorzile, deve prima accertare la mancanza di mezzi adeguati dell’ex coniuge o, comunque, la impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive a norma dell’art. 5 comma 6 L. 898/1970.
Nell’ambito di tale valutazione, che fa parte, per l’appunto, del preliminare scrutinio volto a verificare la sussistenza dei presupposti del diritto all’assegno periodico, non potranno essere effettuate comparazioni tra le condizioni economiche degli ex coniugi bensì solo valutazioni relative alle condizioni del soggetto richiedente l’assegno. Superata, quindi, questa prima fase, il Giudice passerà a valutare il quantum debeatur nel corso di una seconda fase in cui è legittimo procedere ad un giudizio comparativo delle rispettive posizioni personali ed economiche secondo gli specifici criteri dettati dall’art. 5 co. 6 L. 898/1970: ossia le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio personale o comune durante il matrimonio, i redditi di entrambi, la durata del matrimonio.
In buona sostanza, prima della rivoluzionaria sentenza de qua, la condizione della inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge richiedente l’assegno divorzile o la difficoltà di procurarseli per ragioni oggettive andavano valute in raffronto con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso dello stesso, per poi determinare il quantum delle somme per superare la inadeguatezza di detti mezzi (v. ex multis Cass. 05/02/2014 n° 2546 ma anche Cass. 09/06/2015 n° 11870).
In altro senso, il persistente rapporto matrimoniale, estinto con il divorzio, rileverebbe solo all’esito ed esclusivamente a seguito dell’accertata mancanza di mezzi adeguati o della impossibilità oggettiva di procurarseli, parametrata però non al tenore di vita ma, sulla base del c.d. principio di autoresponsabilità, alla indipendenza economica del soggetto richiedente l’assegno.
La Cassazione esplicita gli indici dai quali desumere detta autosufficienza ossia: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari; 3) la capacità e possibilità effettive di lavoro personale; 4) la disponibilità di una casa di abitazione.
L’onere della prova (diabolica?) della mancanza degli adeguati mezzi o di motivi oggettivi per procurarseli, graverà sulla parte richiedente l’assegno, che dovrà dimostrare la circostanza con “tempestive, rituali e pertinenti allegazioni e deduzioni”.
In conclusione, addio al tenore di vita in un contesto sociale in cui il matrimonio non è più considerato un sistemazione definitiva, tendenzialmente capace a produrre illegittimi arricchimenti, anche vita natural durante, una libera e responsabile scelta inidonea a far conservare, una volta naufragato il rapporto, tutti quegli agi di cui si poteva fruire in passato, ed anche, per questo, in grado di disincentivare i c.d. matrimoni di interessi
Abbiamo detto come la nuova prospettiva interpretativa indicata dalla Cassazione nella sentenza 11504/2017, salvo alcune rare eccezioni (esempio Tribunale di Udine 11.05.2017, in Il Familiarista, Giuffrè, pubbl.30.06.17) è seguita ormai dalla quasi unanime giurisprudenza, citandosi, ex multis, tra le pronunce di merito, quelle del Tribunale di Varese 17/06/2017 n. 602, della Corte di Appello di Salerno 26.06.2017 n. 29, del Tribunale di Bari 30.06.2017 n. 3163, del Tribunale di Bologna 09.08.2017 n. 1813, del Tribunale di Milano 03.10.2017 n 9868 (tutte pubblicate su Red.. Giuffrè DeJure 2017). La Cassazione è intervenuta altre volte sull’argomento confermando l’orientamento inaugurato con la decisione 1504/2017. Si segnalano, a tal ultimo riguardo, le due ordinanze del 29.08.2017 n. 20525 e del 09.10.2017 n.23602 nonché l’ultima sentenza del 25.10.2017 n. 25327 laddove viene nettamente ribadito che in tema di riconoscimento dell’assegno divorzile, il giudice nella verifica dell’an debeatur deve accertare che la domanda dell’ex coniuge sia fondata sulla mancanza delle condizioni di indipendenza o autosufficienza economica e non sul mantenimento del precedente tenore di vita, mentre nella verifica successiva del quantum debeatur vanno considerate le singole allegazioni seguendo i principio dell’onere della prova, valutando le condizioni del coniuge, le ragioni della decisione, il reddito di entrambi anche in rapporto con la durata del matrimonio.
Tale inarrestabile trend interpretativo ha indotto alcuni parlamentari a depositare un progetto di legge (n.4605) di modifica dei criteri di determinazione dell’assegno divorzile che tenga conto delle suesposte indicazioni, non essendo queste, come è noto, vincolanti per il giudice chiamato a pronunciarsi sul punto, e che sia in grado di compensare, per quanto possibile, la disparità che il divorzio stesso provoca nelle condizioni di vita dei coniugi.
Allo stato, comunque, il nuovo orientamento in subiecta materia pone alcune rilevanti problematiche, già, invero, affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, riguardanti, da un lato, la soglia oltre la quale si possa parlare di indipendenza economica, dall’altra la modalità con cui fornire la prova della relativa insufficienza, di cui sarebbe onerata come visto, la parte che richiede l’assegno, e che ha fatto dire a qualcuno che si tratterebbe di una prova diabolica
Quanto alla prima questione, è importante ricordare che nelle prime pronunce giurisprudenziali di merito, successive alla decisione della S.C. 11504/2017, soprattutto del Tribunale di Milano, viene sottolineato, in conformità con la storica decisione della S.C., come non possa essere più attuale ed in linea con i tempi l’orientamento che identificava “nel tenore di vita tenuto i costanza di matrimonio o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso”.
Il parametro di riferimento, al quale rapportare l’adeguatezza o meno dei mezzi del richiedente l’assegno di divorzio- giustamente soppiantato (in una sorta, come è stato detto, “di chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”) dal parametro dell’indipendenza economica- come si legge in alcune decisioni dei giudici milanesi, non soltanto appare più aderente al contesto sociale e storico “dove con determinazione e forza viene rivendicato dalle donne stesse la condizione di pari diritti ed aspettative, in tutti gli ambiti lavorativi, sociali, familiari, ma anche più aderente alla natura stessa dell’istituto del divorzio in quanto non ripristina il rapporto economico-patrimoniale tra i coniugi estinto dalla sentenza divorzile.”
Sulla base di tali considerazioni,che attribuiscono all’assegno di divorzio una funzione eminentemente assistenziale (in cui vengono prese in considerazione le condizioni del creditore e non del soggetto obbligato), nella ordinanza di detto Tribunale , del 22/05/2017 ( in www.. IL CASO 2017) è stato ritenuto che una persona possa considerarsi indipendente economicamente quando è adulta e sana e può provvedere al proprio sostentamento, ossia possa disporre di risorse sufficienti per le spese essenziali, quali vitto ed alloggio, ed esercitare i propri diritti fondamentali: parametro (non esclusivo) di riferimento può essere rappresentato dall’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente ad un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che oggi è pari ad € 11.528,41 annui, ossia circa € 1.000,00 mensili).
In altra decisione del Tribunale di Milano del 05/06/2017 (In Red.Giuffrè De jure 2017), è stato valorizzato il fatto che la ex moglie, che lavorava part-time, avrebbe potuto in futuro implementare le ore lavorative e, quindi, i guadagni, avendone le capacità ed essendo libera da altri impegni e finanche disponendo stabilmente di una casa di abitazione ancorché di proprietà della madre: tutti elementi che dovrebbero orientare il Giudice nella adottata valutazione secondo cui la donna aveva raggiunto una indipendenza economica tale da escludere ogni diritto al richiesto assegno divorzile.
Con riferimento alla seconda delle due anzidette questioni, va ricordato che sul tema è intervenuta recentemente la S.C., la quale, con decisione pubblicata l’11/05/2017 n° 11538, ha precisato che la normativa vigente non esige che sia fornita, dal richiedente l’attribuzione dell’assegno divorzile, la ben difficile prova della inesistenza assoluta di ogni possibilità lavoro. Secondo la Cassazione, l’assegno divorzile ha una indubbia natura assistenziale e deve essere disposto in favore di chi non ha redditi sufficienti per condurre un’esistenza libera e dignitosa e deve essere contenuto nei limiti di quanto necessario, senza provocare illegittime locupletazioni.
Il fatto, nella specie, che il richiedente non disponesse di un impiego fisso, non beneficiasse della casa coniugale, non percepisse un reddito regolare ed abbia addotto incontestatamente di essersi impegnato nella ricerca di un lavoro, dovevano considerarsi indici sufficienti a fondare la decisione della Corte Territoriale di conferma dell’assegno divorzile di euro 200,00= riconosciuto alla moglie, con conseguente rigetto del ricorso in Cassazione dell’ex marito che pretendeva la revoca di detto assegno sulla base della asserita mancanza di prova della controparte circa la inesistenza assoluta di ogni possibilità di lavoro
Ma gli effetti più importanti che potrebbero derivare dalla nota sentenza della Cassazione 11504/17, rilevano sul piano della c.d. stabilità di tutti quegli assegni riconosciuti ed attualmente corrisposti sulla base della precedente interpretazione giurisprudenziale che faceva riferimento al parametro del c.d. tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio.
Tali assegni devono considerarsi a rischio sulla base delle recenti indicazioni nomofilattiche della Corte Regolatrice?
La risposta all’interrogativo è di segno positivo purchè ricorrano alcuni presupposti, come emerge dalla recente sentenza della Cassazione 22.06.2017 n. 15481: ossia la richiesta di revisione dell’assegno giustificata dalle mutate condizioni di fatto rispetto a quelle considerate ai fini della sua determinazione originaria.
E’ appena il caso di ricordare a tal riguardo, per sottolineare l’importanza della questione che stiamo esaminando, che nel corso del giudizio in cui è stata pronuncia detta sentenza il Procuratore Generake della S.C. aveva chiesto al Collegio ( inutilmente, la istanza essendo stata respinta) di rimettere il ricorso al Primo Presidente per eventuale assegnazione alle Sezioni Unite essendo necessario valutare l’impatto della sentenza 11504/17 sugli assegni divorzili in precedenza riconosciuti.
Detto questo, va subito rilevato che l’assegno può (ovviamente) essere ridotto o revocato sulla base di una esplicita domanda di revisione da parte del soggetto obbligato, del tutto ammissibile in ossequio al principio che le sentenze di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in esse contenute, passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus”, rimanendo cioè suscettibili di modifica in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, laddove la rilevanza di fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte, nel giudizio che vi ha dato luogo, rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile (cfr. Cass. 12/01/2017 n° 683, Cass. 03/02/2017 n° 2953 e Cass. 20/06/2017 n° 15328, ma lo stesso principio si trova affermato costantemente nella giurisprudenza precedente citandosi, ex pluribus, Cass. 25/08/2005 n° 17320, Cass. 03/08/2007 n° 17041, Cass. 17/06/2009 n° 14093, Cass. 18/07/2013 n° 17618, Cass. 01/07/2015 n° 13154.
Una prima conclusione che può affermarsi sulla base del richiamato principio è nel senso che in subiecta materia non sono configurabili diritti definitivamente acquisiti in favore del soggetto al quale sono stati riconosciuti.
L’art. 9, 1° co., della legge sul divorzio prescrive infatti che “qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni relative alle misure ed alle modalità dei contributi da corrispondersi ex art. 5 e 6”.
Per consolidata giurisprudenza (v. ex multis Cass. 03/08/2007 n° 17041, Cass. 12/09/2011 n° 18620), l’espressione “giustificati motivi” non postula un sindacato del Giudice sulla causa dei sopravvenuti mutamenti delle condizioni economiche delle parti ma prevede, più semplicemente, la esigenza di verificare l’idoneità di tali mutamenti a giustificare la modifica circa la determinazione e/o quantificazione dell’assegno post-matrimoniale
E ciò con riferimento, in difetto di espresse distinzioni, anche nell’ipotesi in cui l’assegno divorzile sia stato originariamente negato o non abbia costituito oggetto di richiesta al momento della pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (v. ex multis Cass. 02/11/2004 n° 21049, Cass. 02/02/2006 n° 2239, Cass. 21/05/2008 n° 13508).
In tale contesto, il procedimento propedeutico alla modifica o revoca dei provvedimenti a contenuto economico, assunti in sede di divorzio, originato a seguito della sopravvenienza dei giustificati motivi, non ha natura di revisio primae istantiae, e quindi di rivisitazione melius re perpensa delle determinazioni già adottate in quella sede, ma di novum indicium poiché finalizzato ad adeguare la regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi al mutamento della situazione di fatto laddove una siffatta modificazione incide certamente sulle loro condizioni patrimoniali, determinandone lo squilibrio.
La superiori osservazioni inducono a ritenere che non sia configurabile la possibilità di revisione dell’assegno divorzile, la cui determinazione è stata operata sulla base del preliminare scrutinio del parametro del “c.d. tenore di vita” laddove la domanda sia giustificata da una diversa interpretazione della norma giuridica non accompagnata dalla allegazione circa la sopravvenienza di circostanze di fatto che vengono a modificare la situazione avuta presente dai Giudici nel pronunciare sull’an e sul quantum,
Tali sopravvenienze potrebbero identificarsi, a titolo di esempio, nelle peggiorate condizioni dei soggetti, obbligato e beneficiario (quando lo stesso chiede un aumento) dell’assegno divorzile, nella stabile e duratura convivenza instaurata dal titolare dell’assegno dopo la pronuncia di divorzio, nelle accresciute esigenze familiari per la nascita di altri a figli generati nella nuova famiglia costituita dopo il divorzio da parte del soggetto tenuto al pagamento del mantenimento, e così via.
Sotto altro profilo appare importante ricordare che il mutamento di un orientamento giurisprudenziale consolidato nel tempo, non è assimilabile allo ius superveniens .
Particolarmente illuminante, sul tema, appare Cass. 09/01/2015 n° 174 secondo la quale “l’orientamento espresso dalle S.U. della parte di Cassazione nella interpretazione delle norme giuridiche, mira ad una tendenziale stabilità e valenza generale, sul presupposto, tuttavia, di una efficacia non cogente ma solo persuasiva, trattandosi di attività consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, sicché non può non costituire limite alla attività esegetica di altro Giudice. Ne consegue che un mutamento di orientamento in sede di nomofilachia non soggiace al principio di irretroattività, non è assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal Giudice di merito al quale può applicare l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene idoneo a definire in modo corretto la controversia, senza essere tenuto a motivare le ragioni che lo hanno indotto a seguire detto indirizzo”.
È appena il caso di ricordare, a tal riguardo, che in un ordinamento come il nostro di civil law, il precedente giurisprudenziale non costituisce, a differenza della legge, una fonte di diritto ma, come sottolineato dalla dottrina (Mengoni) una fonte di fatto (invero non vincolata come nei sistemi anglosassoni dello stare decisis), dotata di una efficacia persuasiva tanto più incisiva quanto più autorevole è il Giudice che ha deciso sulla base di un determinato indirizzo e quanto è più solidala linea argomentativa seguita.
Il Giudice, infatti, non crea la legge ma la dichiara, con la conseguenza che il precedente ha un valore meramente regolativo potendo fingere da modello nelle decisioni successive, soprattutto nelle ipotesi di orientamento stabilmente consolidato tale che la norma, come interpretata dalla Corte di legittimità e dai Giudici di merito, vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che difficilmente è ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o del Giudice delle leggi. Ma il Giudice è soggetto solo alla legge e, quindi, non è da escludersi che tale orientamento possa mutare, anche alla luce di cambiamenti avvertiti nella società, che, come si è visto, sono stati, nella specie, la spinta determinante per soppiantare un principio resistente da più di un quarto di secolo.
Avviandoci a conclusione, non potrebbe non affermarsi come il nuovo orientamento giurisprudenziale non possa di per sè, per così dire, riaprire un caso riguardante il riconoscimento dell’assegno di divorzio, essendo privo, sic et sempliciter di incidere sul giudicato, salva l’ipotesi della sopravvenienza dei giustificati motivi nell’accezione suddetta, che dovrebbero avere una certa “importanza”
In tale contesto, appare pronosticabile che vi sarà chi “forzerà un po’ la mano” per chiamare il Giudice “a rivedere” le proprie valutazioni, effettuate sulla base del c.d. tenore di vita, dimostrando che il soggetto beneficiario gode di quella indipendenza economica tale da garantirgli una esistenza libera e dignitosa, tale da escludere il diritto al mantenimento
Le superiori considerazioni trovano conferma, nella già citata decisione della Cassazione 22/06/2017 n° 15481, la quale, proprio in un caso in cui si discuteva sulla revisione di un assegno divorzile, ha precisato che “alla luce dei nuovi criteri, l’accertamento richiesto dalle parti nell’odierno giudizio – anche in questa sede – andava compiuto non già con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio” (così come testualmente affermato nel decreto impugnato), bensì alla luce del principio dell’”indipendenza o autosufficienza economica” del coniuge che abbia richiesto l’assegno (ovvero la sua modifica o la sua revoca), considerando i principali “indici” richiamati nei riportati nuovi dicta: il possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri “lato censu” imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente); la capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo); la stabile disponibilità di una casa di abitazione, ecc., secondo la seguente ulteriore specificazione.
Il giudice – richiesto, ai sensi dell’art. 9, comma 1, della legge n° 898 del 1970 (come sostituito dall’art. 13 della Legge n° 74 del 1987) della “revisione” dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente riconosciuto, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della stessa legge n° 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della legge n° 74 del 1987), in ragione della sopravvenienza di “giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio” – deve verificare, conformemente ai principi di diritto enunciati con la sentenza n° 11504 del 2017, se i sopravvenuti “motivi” dedotti giustifichino effettivamente, o no, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, desunta dagli “indici” individuati con la stessa sentenza n° 11504 del 2017; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge beneficiario.
Novembre 2017 avv. Antonio Arseni Foro di Civitavecchia