IL DANNO PARENTALE CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL DANNO PROVOCATO ALLA VITA CONIUGALE (Cass. 18/05/2017 n° 12470) A cura dell’Avv. Antonio Arseni – Foro di Civitavecchia.

Il c.d. danno parentale, è legato al tema delle plurioffensività dell’illecito civile che permette la risarcibilità del pregiudizio non solo nell’ambito del rapporto autore/vittima, ma anche nei confronti del terzo che subisce la violazione di un interesse costituzionalmente  presidiato quale può essere quello alla integrità delle relazioni familiari e più in generale quello alla conservazione di un legame di solidarietà che si fonda non solo su un rapporto di coniugio ma anche di convivenza, caratterizzato da una comunione di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, stabile e duratura.

Esplicita a tal riguardo appare una recente decisione della S.C. 08/05/2015 n° 9320, che si cita per la sua sintetica precisione e chiarezza, la quale ha affermato il principio di diritto secondo cui “il risarcimento del danno da fatto illecito presuppone che sia stato leso un interesse della vittima, che da tale lesione sia derivata una perdita concreta, ai sensi dell’art. 1223 CC e, che tale perdita sia consistita nella diminuzione di valore di un bene o di un interesse”.

In questo senso, quando tale perdita incide su beni effettivamente diversi, anche non patrimoniali, come il vincolo parentale e la integrità psico-fisica, il Giudice è tenuto a liquidare separatamente i due pregiudizi senza che osti il principio della omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale ha lo scopo di evitare duplicazioni risarcitorie, incompatibili nel caso in cui il danno abbia inciso su beni oggettivamente diversi (in questo senso, vedasi anche Cass. 07/12/2015 n° 23581).

Dunque, quando l’illecito produce perdite non patrimoniali eterogenee non significa che la liquidazione dell’una assorbe tutte le altre ipotesi, come nel diverso caso in cui lo stesso danno viene liquidato due volte solo perché viene chiamato con nomi diversi.

Sinteticamente può dirsi che ormai la giurisprudenza è orientata ad escludere certamente che possa esservi riparo per quelle teorie che vedono nel pregiudizio alla salute una forza capace di attrarre ed assorbire comunque tutte le conseguenze non economiche dell’illecito, facendo comunque attenzione ad evitare duplicazioni risarcitorie attraverso varie denominazioni dello stesso fatto illecito ancorché sia necessario che uno vada sempre integralmente ristorato.

Sotto quest’ultima prospettiva appare indifferente che la quantificazione venga effettuata attraverso la c.d. tecnica della “personalizzazione della liquidazione” potendo le singole voci essere conteggiate separatamente nel rispetto del principio suddetto che esclude ogni duplicazione risarcitoria.

È questo il significato che si coglie da Cass. 24210/15, Cass. 12211/15, Cass. 9320/15 secondo le quali l’esigenza di un ristoro integrale attraverso il criterio della personalizzazione, per cui la liquidazione è unitaria determinando il Giudice l’ammontare del danno non patrimoniale nella misura complessiva dovuta “mediante la somma dei vari addenti, non cambia affatto il risultato laddove invece lo stesso Giudice fosse chiamato ad indicare specificamente le singole somme da imputare alla singola voce o aspetto del pregiudizio effettivamente accertato nelle fattispecie sottoposte al suo esame”

Ad ogni danno ingiusto deve seguire un giusto ristoro: questo l’imperativo categorico spesso rivolto ai Giudici di merito che si  riscontra in molte decisioni della Corte Regolatrice.

Lo stesso dicasi per quanto riguarda il danno patrimoniale che, come precisa Cass. 24210/2015 ma anche Cass. 12211/2015 “si  scandisce il danno emergente e lucro cessante e ciascuna di queste categorie è compensata fa una pluralità di voci, aspetti o sintagmi quali, ad esempio, con riguardo al danno emergente, il mancato conseguimento del bene dovuto o la perdita di beni integranti il proprio patrimonio, il c.d. fermo tecnico ovvero, con riferimento al lucro cessante, la perdita della clientela, il discredito professionale, la perdita della capacità lavorativa specifica, aspetti o voci che non ricorrono tutti sempre e comunque, in ogni ipotesi di illecito ed il cui ristoro dipende dalla verifica della relativa sussistenza nel caso concreto”

Anche qui compito del Giudice è quello di accertare la oggettiva consistenza del pregiudizio allegato o provato al di là del nome attribuitogli, dovendosi escludere la possibilità di applicare, in modo puro, parametri rigidamente fissati in astratto.

Posto che nell’ambito del danno non patrimoniale la più recente giurisprudenza della Cassazione ammette la configurabilità di un danno biologico consistente nel pregiudizio alla integrità psico-fisica del danneggiato, che non esaurisce le capacità offensive dell’illecito, potendo l’evento attentare ad altri valori della persona, ontologicamente diversi, in quanto presidiati costituzionalmente, quali il danno esistenziale (proiezione esterna dell’essere) e quello morale (interiorizzazione intimistica della sofferenza), va ricordato che con l’accezione “danno parentale” comunemente si allude a quello relazionale o esistenziale che si voglia in quanto proprio consistente nella concreta e considerevole alterazione del modo di relazionarsi del soggetto sia all’interno del nucleo familiare che all’esterno di esso, nell’ambito dei concreti rapporti della vita di relazione.

Ovviamente non può configurarsi un danno esistenziale attraverso un semplice stato di disagio o fastidio che spesso accompagna la nostra esistenza quotidiana, che al contrario è rinvenibile allorché l’evento lesivo ha provocato uno stravolgimento delle normali abitudini di vita.

Il danno parentale più comune è quello che si identifica nella perdita di un prossimo congiunto da cui consegue normalmente una condizione di vuoto esistenziale da parte dei familiari, determinato dal fatto di non poter più godere della sua presenza e di non poter più sperimentare tutte quelle relazioni fatte di affettività, condivisione, solidarietà che caratterizzano un sistema di vita che viene irreversibilmente stravolto (v. soprattutto Cass. 10107/2011 e più di recente Cass. 19/05/2017 n° 12603).

Il riferimento normativo di un simile danno, detto anche “edonistico” è rappresentato dall’art. 2059 CC che permette il ristoro di un interesse presidiato costituzionalmente, non avente natura economica, vertendosi in materia di danno che non può essere oggetto di valutazione monetaria di mercato.

Come si ricava da Cass. 16912/15 il danno parentale riguarda la lesione di due beni della vita: 1) il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, che trova il suo supporto costituzionale negli artt. 2, 3, 29, 30, 31 e 36; 2) il bene della solidarietà familiare riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia.

Condizione indispensabile per la sussistenza del danno da perdita parentale non è la convivenza tra la vittima dell’illecito ed il prossimo congiunto, questa costituisce solo un indice che, insieme ad altri elementi, può dimostrare l’ampiezza del vincolo affettivo determinando anche la misura del quantum debeatur.

Sotto detto profilo, anche la perdita di un nonno non convivente può produrre il danno in questione in relazione alla accertata consistenza del vincolo affettivo tra lo stesso ed i componenti del nucleo familiare (nipoti). Così si è pronunciata una recente sentenza della Cass. 20/10/2016 n° 21230.

Accanto al danno da perdita parentale, la giurisprudenza ha avuto modo di ammettere la configurabilità di un danno parentale non riconducibile alla morte del prossimo congiunto ma a lesioni di tale gravità da non permettergli più di poter attendere alle proprie attività quotidiane e tali da costringerlo ad aver bisogno di continua assistenza.

In questo sento vedasi Cass. 05/12/2014 n° 25729 la quale, conformemente ad altro precedente, rappresentato da Cass. 31/05/2003 n° 8827, ha affermato che “quando la lesione della salute è lieve non può configurarsi alcuna lesione del rapporto parentale, per la cui sussistenza è necessario che la vittima abbia subito lesioni seriamente invalidanti o che si sia determinato uno sconvolgimento delle normali abitudini dei superstiti, tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse che è onere dell’attore allegare e provare, attraverso la enunciazione di circostanze precise e non generiche, astratte od ipotetiche”.

Come già ricordato, il danno parentale da morte o lesione grave, può configurarsi nell’ambito di una famiglia allargata, laddove la mera titolarità del rapporto parentale non determina automaticamente il diritto al risarcimento del danno riflesso essendo necessario accertare l’intensità del legame familiare (v. da ultimo Cass. 20/10/2016 n° 21230 già cit).

Ma può anche configurarsi nell’ambito di una famiglia fatta di marito e moglie: fattispecie esaminata dalla decisione della S.C. in commento 18/05/2017 n° 12470 laddove definisce il pregiudizio sofferto dalla vittima di rimbalzo (la moglie della vittima di un grave incidente stradale a causa del quale aveva subito danni alla persona con postumi permanenti nella misura del 70%) un danno alla vita di coppia, ovvero un danno da alterazione della vita coniugale: una definizione, questa, come vedremo, che non assume il significato di una autonoma categoria nell’ambito del danno non patrimoniale, ma soltanto una valenza meramente descrittiva di un pregiudizio arrecato al rapporto parentale nell’accezione che si è voluta precisare nelle pagine che precedono.

Ed invero, nel caso esaminato dalla Corte Regolatrice nella sentenza in commento, il Tribunale, in un autonomo giudizio risarcitorio – promosso dalla moglie di un uomo che aveva subito una gravissima menomazione alla persona, con postumi permanenti al 70%, come riconosciuti in un separato giudizio conclusosi, con sentenza passata in giudicato, attraverso il riconoscimento del 75% di responsabilità in capo all’investitore ed il 25% in capo all’infortunato – accoglieva la domanda della donna, la quale aveva assunto di aver subito, per effetto della grave menomazione del marito, come accertata nel distinto giudizio, tutta una serie di danni non patrimoniali di cui chiedeva lo specifico ristoro.

In particolare, deduceva che il grave infortunio del marito aveva prodotto una completa alterazione della vita familiare, per cui doveva ammettersi la risarcibilità del danno non patrimoniale iure proprio, avendo determinato la perdita della possibilità di una normale vita di relazione a causa della necessità di dare continua assistenza al marito, che, oltre alla grave invalidità, aveva riportato, in conseguenza del sinistro, anche significative alterazioni caratteriali evidenziate da comportamenti offensivi con improvvisi scoppi d’ira, con conseguente deterioramento dei rapporti personali ed affettivi con lo stesso, oltre che con il modo esterno.

La domanda della donna veniva accolta e stabilito a suo favore il risarcimento del danno non patrimoniale suddiviso in danno morale, danno biologico e danno da alterazione della vita coniugale, conseguente alla necessità di sostenere le esigenze di assistenza del marito, che veniva liquidato per un totale di € 63.000,00. La donna proponeva appello avverso la decisione del Giudice di prime cure, volto ad ottenere una liquidazione del danno non patrimoniale riflesso, subito in conseguenza delle menomazioni riportate dal marito nel sinistro, che fosse più conforme rispetto al pregiudizio effettivamente riportato, alla sua dignità di donna e di moglie, al diritto all’integrale fruizione del rapporto coniugale ed al rispetto della vita sessuale, privata e familiare, solo in linea teorica riconosciuta dal Tribunale ma liquidata in un importo irrisorio con valutazione apodittica e non verificabile.

Sotto tale profilo sollecitava l’applicazione delle tabelle Milanesi del 2011 per la liquidazione del danno non patrimoniale riflesso sottolineando come la gravità del danno fosse talmente elevata da essere sostanzialmente equiparabile a quella conseguente alla perdita del rapporto parentale.

La Corte di Appello accoglieva in parte l’impugnazione ritenendo che il Tribunale non avesse adeguatamente considerato la compromissione dei rapporti parentali tra i due coniugi (inclusi quelli di natura sessuale), che all’epoca dei fatti da poco avevano superato i 45 anni ed erano sposati da 25.

La Corte di Appello, dunque, provvedeva alla riliquidazione del danno con una somma aggiuntiva di € 104.000,00 circa, opinando di non poter ricorrere alla liquidazione secondo le tabelle Milanesi ma attraverso l’adozione di due parametri equitativi puri: ossia attribuendo un determinato valore economico a ciascun anno di futura durata della convivenza con il marito in quelle condizioni per un arco di tempo, determinando un valore su base annuale per la perdita della sfera affettiva e sessuale ed un altro valore per gli oneri di assistenza.

Non considerandosi soddisfatta, la donna ricorreva in Cassazione affidando il gravame ad un doppio motivo: a) per non aver il Giudice di merito valorizzato adeguatamente gli interessi lesi nel momento in cui si è proceduto alla quantificazione; b) per aver il Giudice di merito provveduto ad una liquidazione incongrua in quanto ispirata ad un criterio equitativo puro, privo di alcuna logica interna e non agganciato né alle tabelle Milanesi né ad altro criterio obiettivo già indicato dalla S.C. come valido (v. ad es. Cass. 18641/2011 che ebbe a ritenere legittima la utilizzazione di un parametro di quantificazione del danno pari all’80% del danno biologico liquidato in favore delle vittime primarie).

La Corte di Cassazione rigetta il primo motivo ma accoglie il secondo. A motivo del rigetto della prima censura afferma la S.C. come la propria giurisprudenza abbia riconosciuto adeguatamente la gravità delle conseguenze riportate dal danneggiato (la vittima principale) sia della moglie (vittima di riflesso) dando giustamente spazio ad un integrale ristoro del pregiudizio non patrimoniale subito dal prossimo congiunto (la moglie), in conformità dei principi più volte affermati secondo i quali il danno biologico, il danno morale ed il danno alla vita di relazione (alias esistenziale) rispondono a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo che può causare, nella vittima ma anche nei familiari (si sottolinea tale passaggio a conferma di un orientamento ormai costante della S.C.) un danno accertabile sotto il profilo medico-legale (danno biologico), un dolore interiore (danno morale), una alterazione della vita quotidiana (danno esistenziale), sicché il Giudice di merito deve valutare tutti gli aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni ma anche vuoti risarcitori.

Si dunque al danno per lesione del rapporto parentale: voce descrittiva del danno esistenziale includendo, come visto, il grave infortunio di un componente della famiglia mononucleare, ovvero della coppia, gli aspetti relazionali all’interno della stessa e/o all’esterno, meritevoli di giuridica considerazione sul piano risarcitorio.

Ma attenzione: ammoniscono gli Ermellini che occorre la specifica e non generica allegazione di come il fatto illecito lesivo abbia determinato nel prossimo congiunto quello sconvolgimento delle normali abitudini tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse.

Allegazione che ovviamente deve essere provata da chi chiede il risarcimento, in ossequio al noto principio contenuto nell’art. 2697 CC.

Per quanto riguarda l’accoglimento del secondo motivo (criteri di liquidazione del danno da alterazione del rapporto parentale) viene sottolineato dai Giudici di Palazzo Cavour come la cassazione della sentenza della Corte di Appello dovesse conseguire al connesso denunciato vizio di violazione di legge, non essendosi attenuta ai principi di diritto enunciati dalla stessa S.C. in tema di liquidazione, in via equitativa, del danno non patrimoniale da perdita o alterazione del rapporto parentale, incorrendo, in tal modo, nella violazione dell’art. 1226 CC.

“Essa, infatti, si pone in contrasto con i principi di diritto già affermati (tra le altre v. Cass. n° 20895 del 2015), secondo i quali nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso ad una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi, i soli idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto e a consentire la verifica ex post del ragionamento seguito dal Giudice in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo, dovendosi ritenere preferibile, per garantire l’adeguata valutazione del caso concreto e l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, l’adozione del criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, al quale la S.C. riconosce la valenza, in linea generale e nel rispetto dell’art. 3 Cost., di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2016 CC, salva l’emersione di concrete circostanze che ne giustifichino l’abbandono”.

 

Ottobre 2017. Avv. Antonio Arseni – Foro di Civitavecchia