L’esistenza di un legame eziologico tra la condotta di un soggetto e l’evento dannoso è condizione indispensabile per l’attribuzione del fatto illecito (e quindi del danno) al soggetto che ne è stato l’autore, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale.
Il nesso causale, nell’illecito civile, assumerebbe rilievo sotto due profili: quello dell’evento lesivo, da una parte, e quello del danno risarcibile dall’altra, con la precisazione che nella prima ipotesi la causalità svolgerebbe una funzione di imputazione della responsabilità rispondendo, in pratica, all’interrogativo tragic hero in real life circa l’autore (chi è stato?), mentre nella seconda, la diversa funzione di determinare l’ammontare del danno cagionato, sulla base del già risolto problema della imputazione, rispondendo all’interrogativo “quanto devo pagare?”.
Al riguardo, si parla, rispettivamente, di causalità materiale (o in fatto), per indicare, per l’appunto, il collegamento materiale tra la condotta del danneggiante e l’evento dannoso e di causalità giuridica, proprio per identificare il collegamento, in punto di diritto, fra il fatto dannoso e la sua conseguenza allo scopo di perimetrare l’area del danno risarcibile.
La prova del nesso di causalità costituisce uno snodo fondamentale nei giudizi di responsabilità civile condizionandone gli esiti.
La verifica della causalità, tanto commissiva quanto omissiva, richiede un giudizio controfattuale da compiersi ex post, ossia dopo e rispetto all’evento come verificatosi hic et nunc secondo il seguente schema:
- la condotta umana è condizione necessaria dell’evento se, eliminata dal novero dei fatti realmente accaduti, esso non si sarebbe verificato;
- la condotta umana non è condizione necessaria dell’evento se, eliminata secondo lo stesso procedimento mentale, esso si sarebbe ugualmente verificato.
E’ principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui “l’esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal Giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che la rende probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio: infatti “la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato, impone, nelle analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del più probabile che non) che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 50% plus unum”.
In questo senso, vedasi Cass. S.U. 11.01.2008, Cass. 22/10/2013 n° 23933, Cass 19/01/2016 n° 768, Cass.27.03.2017 n.7862, dalle quali si ricava:
- che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 CP e della regolarità causale;
- che ciò che differenzia l’accertamento del nesso causale in sede penale ed in sede civile è la regola probatoria, valendo per il primo il principio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vale il principio del “del più probabile che non”, fermo restando che la regola della certezza probabilistica non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativa statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa) ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza nell’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica)
Il criterio empirico della probabilità statistica è ,quindi, necessario ai fini dell’accertamento del nesso causale, ma non sufficiente, dovendo il Giudice procedere ad una“verifica aggiuntiva” di tipo induttivo tesa al riscontro della attendibilità dell’utilizzo di detto criterio alla fattispecie concreta, alla stregua di tutto il materiale probatorio acquisito nel processo, anche al fine di escludere la possibilità di ricorrere ai processi eziologici alternativi.
Ciò posto, va affrontata, a questo punto, la importante tematica del riparto dell’onere probatorio riferito, nello specifico, alle ipotesi di responsabilità medica: un ambito che in questi ultimi tempi è stato interessato da un cospicuo aumento del contenzioso, in un contesto in cui la figura del medico, soprattutto di famiglia, ha perso quell’ aurea considerazione a motivo di un rapporto con il paziente ed i suoi familiari improntato ad un fiducia reciproca assoluta, di cui how to write an essay conclusion purtroppo si sono perse le tracce, favorendo, invero, l’esplosione del c.d. fenomeno della medicina difensiva, originato dalla tendenza dei medici di prescrivere accertamenti ed esami, spesso inutili, fatti eseguire in ragione di un clima di persistente “caccia alle streghe”, che ha determinato notevoli costi sociali che ricadono sulla intera collettività sia dal punto di vista economico che organizzativo.
Mala tempora currunt, quindi, per gli allievi di Ippocrate ancorché in questi ultimi tempi il legislatore e la stessa giurisprudenza hanno operato scelte finalizzate ad ovviare a dette emergenze attraverso l’adozione di soluzioni normative ed interpretative volte al circoscrivere i confini della responsabilità medica come dimostrerebbe, da una parte, la introduzione delle Legge 17/03/2017 n° 24 (c.d. Legge Gelli/Bianco) e, dall’altra quello che è stato definito un reviriment (soprattutto con la decisione della 3a Sezione della Cassazione 26/07/2017 n° 1839, intervenuta sulla c.d. scomposizione del carico probatorio in capo al danneggiante ed al danneggiato.
L’argomento riveste una importanza fondamentale.
E’ stato sostenuto che attraverso la decisione appena citata la S.C. sembrerebbe aver assunto un atteggiamento più prudente nel delicato ambito dell’accertamento del nesso causale, come visto di fondamentale importanza per la prognosi di imputazione di un evento che si assume dannoso
Ed, invero, rileggendo la formula impiegata dalle S.U. del 2008 (sentenza del 11/01/2008 n° 577) e quelle utilizzate in precedenza (v. soprattutto, ex multis, Cass. 23/02/2000 n° 2044, Cass. 24/11/2003 n° 17871, Cass. 28/05/2004 n° 10297, Cass. 28/05/2004 n° 10297, Cass. 11/11/2005 n° 22894, Cass. 24/05/2006 n° 12362, Cass. 31/07/2006 n° 17306) la Terza Sezione ha stabilito più compiutamente e nettamente “che ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico (ndr casi più frequenti nella pratica forense) per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto”) dell’aggravamento della situazione patologica (o della insorgenza di nuove patologie) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione del sanitario/struttura restando a carico dell’obbligato la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile”.
La massima riprende il dictum di Cassazione 16/01/2009 n° 975, in adesione ai conformi precedenti ante 2008, allorché le S.U. (decisione 577/2008) ebbero a statuire che “nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da un errore del medico o della struttura sanitaria, al quale sono applicabili le regole sulla responsabilità contrattuale ivi comprese quelle del riparto dell’onere della prova, l’attore ha solo l’onere – ex art. 1218 CC – di allegare e provare la esistenza del contratto e di allegare l’esistenza di un valido nesso causale tra l’errore medico e l’aggravamento delle proprie condizioni di salute, mentre spetterà al convenuto dimostrare o che l’inadempimento non vi è stato, ovvero che esso pur essendo sussistente non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dall’attore”.
E’ stato sostenuto che la decisione delle S.U., capovolgerebbe, il consolidato precedente orientamento ed apparirebbe evidente l’intento delle stesse di favorire il paziente, il quale non è tenuto a provare la connessione causale fra il comportamento del medico ed il danno lamentato. Una volta che l’attore abbia assolto all’onere di allegazione (e non a quello probatorio) dell’inadempimento del convenuto (N.B.) astrattamente idoneo a provocare quel danno, è piuttosto l’esercente la professione sanitaria a dover confutare la esistenza dell’asserito nesso eziologico. Ma come? Fornendo la prova della insussistenza dello stesso tra il proprio comportamento ed il nocumento subito dal paziente, allorchè, in “prima battuta”, lo stesso danneggiante non riesca a provare che inadempimento non vi è stato ovvero, in subordine, che il danno è stato determinato da un evento inevitabile in quanto imprevisto od imprevedibile.
Trattasi di una distinzione degli oneri probatori, quelli posti a carico rispettivamente del sanitario e del paziente, predicabile nel sistema della responsabilità contrattuale che caratterizza quella della struttura sanitaria e del medico che presta servizio al suo interno, ricollegabile rispettivamente agli artt. 1218 CC e 1228 CC. Infatti, nel momento stesso in cui il paziente è accettato dalla struttura ospedaliera (tanto privata quanto pubblica) viene stipulato tra le parti quello che viene definito contratto di spedalità, da cui derivano, in capo alla struttura stessa, obbligazioni di varia natura, non limitate solo alle cure mediche-chirurgiche, estendendosi a tutta una serie di obblighi di protezione consistenti nella messa a disposizione del personale infermieristico e paramedico, alla fornitura di medicinali e di attrezzature tecniche nonché dei servizi latu sensu alberghieri (cfr. ex multis Cass. 24/10/2013 n° 24109).
Il doppio sistema della responsabilità sanitaria, di cui appena si è detto, dunque, risulta essere modificato, nella sostanza, a seguito del più recente indirizzo della Corte Regolatrice, a partire soprattutto della sentenza della Cassazione 18932/2017 (già citata): in un senso più favorevole per gli esercenti la professione medica (probabilmente in ragione dei nuovi assetti normativi di cui alla Legge Galli/Bianco) e della esigenza di arginare gli accennati inconvenienti della c.d. medicina difensiva.
In buona sostanza, in un giudizio di responsabilità medica, essa va addebitata alla struttura sanitaria/medico attraverso un duplice, necessario, accertamento: il primo relativo all’evento dannoso che deve essere provato dal creditore danneggiato e l’altro relativo alle impossibilità ad adempiere, che deve essere provato dal debitore danneggiante. Quindi, mentre il paziente deve provare il nesso di causalità tra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario, la struttura (o il medico) deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione. Tale onere probatorio va applicato dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio “del più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che se a termine della istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere respinta.
Con particolare riferimento ai c.d. giudizi di malpractice medica si delinea, dunque, un duplice ciclo causale, “l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle; il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante, mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibili la prestazione (fatto estintivo del diritto).”
“Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerta la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria/medico l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile”. Così, testualmente, da ultimo, Cass. 24/10/2018 n° 26902.
Ed invero, il danno (tanto nella responsabilità contrattuale quanto in quella aquiliana) è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio e l’eziologia è imminente al danno, sicché deve essere allegato e provato dall’attore/danneggiato anche il rapporto di causalità che sussiste tra il fatto e l’evento dannoso (causalità materiale) nonché le conseguenze dannose che l’evento illecito ha prodotto (causalità giuridica). Ed infatti, se si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata, da colui che allega tale ascrizione, la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta.
Precisa la Corte Regolatrice (Cass. 20/08/2018 n° 20812 ma anche Cass. 07/12/2017 n° 29315 e da ultimo Cass. 19.07.2018 n. 19204 che “con particolare riguardo alla responsabilità sanitaria, al di là della sua configurabilità in termini contrattuali ovvero aquiliani, la distribuzione degli oneri probatori fra danneggiato e danneggiante, nei termini indicati, si ricava dalla previsione dell’art. 1218 CC che solleva il creditore dell’obbligazione asseritamente non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento”.
Insomma, per ritenere il sanitario responsabile del pregiudizio occorso è necessario “che il danneggiato fornisca la prova, a suo carico, che esso sia legato da nesso di derivazione causale alla condotta del medico ; successivamente è possibile rivolgersi in direzione della c.d. dimensione dell’illecito costituita dal suo elemento soggettivo, laddove “sarà il debitore della prestazione (struttura sanitaria/medico) a dover dare la prova che l’inadempimento od il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante in un contesto in cui la causa attiene alla non imputabilità della impossibilità ad adempiere che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti temi di prova della parte debitrice e che concerne un ciclo causale distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato od inesatto”.
Ovviamente, l’impossibilità di ipotizzare attendibilmente un nesso fra evento e condotta del sanitario coinvolto, renderebbe ultronea la verifica della derivazione causale attraverso il doppio ciclo di cui si è detto. Si tratterà allora di verificare, nella fattispecie concreta, la ricorrenza o meno della “condotta astrattamente idonea a causare il danno”, sulla base del significato attribuibile alla espressione, che la dottrina e giurisprudenza individua in quella indicazione, avente un grado di determinatezza e specificità idoneo a supportare la allegazione dell’inadempimento medico, essendo strumentale a delimitare la domanda attore e quindi l’oggetto del giudizio.
L’orientamento appena illustrato ha incontrato il favore della stragrande maggioranza della giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente alla sentenza 18932/2017. Oltre le pronunce sopra ricordate si segnalano, in senso del tutto conforme, Cass. 23/03/2018 n° 7250 , il gruppo delle quattro sentenze pubblicate il 30/10/2018 recanti i numeri 27455, 27446, 27447, 27449 della III Sezione, la sentenza 05/10/2018 n° 24533, fino alla recentissima Ordinanza della III Sezione Civile 20/11/2018 n° 29853 ed, ancora, alle due pronunce del 30.11.18 n. 30998 e 04.12.2018 n. 31245
In conclusione, il quadro normativo e giurisprudenziale come sopra delineato, induce a ritenere l’esistenza di una condizione di maggior favore per il medico/struttura sanitaria, probabilmente giustificata dall’esigenza di fronteggiare le c.d. medicina difensiva. In tal senso orientano la Legge Galli/Bianco nonché quelle operazioni di ermeneutica, emergente dalle superiori osservazioni, di accumunare, sul piano degli oneri probatori, le ipotesi di responsabilità contrattuale e di quella extracontrattuale considerato che nell’uno, come nell’altro caso, è il danneggiato a dover dimostrare il danno ed il nesso di causa tra quest’ultimo e la condotta del sanitario.
Sul punto appare chiaro un passaggio contenuto nella sentenza della S.C. 18392/2017 secondo cui la “causalità relativa all’evento ed al danno consequenziale è comune ad ogni specie di responsabilità extracontrattuale, e caratterizza negli stessi termini, sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, gli oneri di allegazione e di prova del danneggiato. Il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l’eziologia immanente alla nozione di danno anche l’eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l’attore deve provare. Su questo tronco comune intervengono le peculiarità delle due forme di responsabilità. La responsabilità contrattuale sorge dall’inadempimento di un obbligo, sicché l’attore deve provare la fonte dell’obbligo. La responsabilità extra contrattale richiede invece, stante la mancanza di un’obbligazione, un criterio di giustificazione, e tali sono il dolo e la colpa, che è pertanto onere dell’attore dimostrare”.
Dicembre 2018- Avv. Antonio Arseni -Foro di Civitavecchia