L’art. 12 bis della legge sul divorzio stabilisce che “il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze ed in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.”
Il caso : l’ex coniuge proponeva ricorso avverso la decisione del Giudice Territoriale che aveva escluso il suo diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex marito, in qualità di agente generale dell’INA-Assitalia S.p.a., per il periodo coincidente con il rapporto matrimoniale.
La ricorrente deduceva la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12-bis della legge 1° dicembre 1970, n. 898, osservando che, “nell’escludere il suo diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto, in virtù della natura imprenditoriale dell’attività svolta dall’ex coniuge, il Giudice a quo non aveva tenuto conto della configurabilità del rapporto con la preponente come rapporto di agenzia nonchè del collegamento della predetta attribuzione con la cessazione del rapporto; sosteneva che, per effetto di tale collegamento, l’indennità percepita dal’ex coniuge era riconducibile alla previsione dell’art. 12- bis l. 898 /70 , non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la sua natura retributiva e la denominazione adottata dalla contrattazione collettiva, ma soltanto la sua correlazione con l’incremento patrimoniale prodotto nel corso del rapporto dal lavoro dell’avente diritto, giovatosi del contributo diretto ed indiretto dell’ex coniuge.
Il ricorso era ritenuto infondato.
Secondo la SC , l’art. I2-bis della legge n. 898 del 1970, nel riconoscere al coniuge divorziato titolare di assegno che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, mira a realizzare una forma di partecipazione, sia pure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi ,finché il matrimonio è durato, ovvero ad imporre la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto.
Inoltre, la norma in esame a rinvia ad una nozione più generica, comprensiva anche degli emolumenti collegati alla cessazione di rapporti di lavoro parasubordinato, tra i quali va inclusa l’indennità dovuta in caso di risoluzione del rapporto di agenzia (‘cfr. Cass., Sez. I, 30 dicembre 2005, n. 28874
Secondo la Corte Regolatrice, però, è necessario analizzare in concreto tutte le caratteristiche del rapporto intercorso tra l’altro coniuge (agente) ed il preponente.
Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici, il coniuge – agente si era avvalso dell’opera di una rete di subagenti in regime di parasubordinazione e di un certo numero di dipendenti così da escludere che la collocazione e la promozione dei prodotti assicurativi avesse avuto luogo mediante l’impiego di un’opera prevalentemente personale.
Alla luce di ciò, la Suprema Corte ha escluso dall’ambito applicativo dell’art. 12-bis L. n. 898/1970 l’ipotesi in cui l’attività svolta dall’altro coniuge abbia avuto natura imprenditoriale.
In particolare, nel caso di specie, l’esclusione del carattere parasubordinato del rapporto intercorso tra l’ex coniuge ed il preponente trova conforto nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la quale, in riferimento al rapporto di agenzia, ritiene inconfigurabili gli estremi della parasubordinazione ogni qualvolta l’attività dell’agente non si risolva in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, ma sia svolta attraverso una struttura societaria o comunque mediante un’organizzazione imprenditoriale di dimensioni tali da assumere carattere preminente rispetto al contributo personale fornito dall’agente (cfr. Cass., Sez. VI, 19 aprile 2011, n. 8940,- Cass,, Sez. lav., 6 aprile 2009, n. 8214; 9 febbraio 1989, n. 814).
Con la decisione in commento, la Cassazione ricomprende nel concetto di indennità di fine rapporto i trattamenti – derivanti esclusivamente da lavoro subordinato e da lavoro parasubordinato – comunque denominati, che siano configurabili come quota differita della retribuzione, corrisposta al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
L’argomento offre lo spunto per una riflessione sui tratti caratteristici della parasubordinazione la cui problematicità è ben presente nella giurisprudenza di legittimità, come in quella di merito, ed ancora oggi al centro di un acceso dibattito dottrinale
Come è noto, il rapporto di agenzia costituisce insieme a quello di rappresentanza la forma tipica della parasubordinazione e trova il riconoscimento legislativo nell’art.1742 c.c.
Nella sua tipicità tale contratto è destinato ad attuare, tra il preponente e l’agente ,in una determinata zona, una collaborazione professionale con carattere di stabilità verso un corrispettivo.
L’agente deve porre in essere , a proprio rischio un risultato , con l’obbligo naturale di osservare, oltre alle norme di correttezza e di lealtà, le istruzioni ricevute dal preponente[.
Il contratto di agenzia è caratterizzato da un complesso di elementi, quali l’attribuzione del rischio economico, la stabilità dell’incarico, l’autonoma organizzazione nell’espletamento della propria attività, la promozione verso corrispettivo della conclusione di affari tra preponente e terzi nell’ambito di una determinata zona; né la causa di tale contratto viene mutata da prestazioni accessorie poste convenzionalmente a carico dell’agente; tali elementi devono essere accertati nel merito e se correttamente e logicamente motivati sfuggono al sindacato di legittimità.
L’elemento distintivo del rapporto di agenzia rispetto al lavoro subordinato non è costituito dalla sottoposizione alle direttive altrui, che è elemento presente nell’uno e nell’altro rapporto, ma dal rischio, che è totalmente a carico dell’agente, con la conseguente inconfigurabilità di un rapporto di agenzia nel caso di prestazione di attività compensata con retribuzione fissa.
È interessante evidenziare che la S.C. ritiene proprio il rischio elemento determinante per escludere il diritto del coniuge a percepire una quota dell’indennita di fine rapporto se l’ex coniuge è imprenditore . Secondo la Corte “la funzione riequilibratrice “assegnata all’attribuzione in esame non può essere considerata sufficiente a giustificare l’equiparazione della posizione del coniuge del lavoratore subordinato o parasubordinato a quella del coniuge dell’imprenditore, se non altro perché quest’ultimo, pur partecipando indirettamente al godimento dei relativi proventi, non è assoggettato ai rischi dell’attività economica svolta dall’altro coniuge in regime di autonomia. Diversamente opinando, non si comprenderebbe il motivo per cui il legislatore, nell’accordare al coniuge divorziato il diritto in esame, ne abbia limitato il riconoscimento all’Ipotesi in cui l’altro coniuge abbia intrattenuto con terzi un rapporto di lavoro, escludendone pertanto la spettanza laddove, per caratteristiche e dimensioni, l’attività svolta non sia riconducibile alla predetta”
Tale orientamento tuttavia non appare in alcun modo ragionevole, oltre ad esser in evidente contrasto con la natura assistenziale dell’istituto.
Si ritiene opportuno ricordare che la previsione normativa di cui all’art.12bis l.898 del 1970, del diritto all’attribuzione della quota del T.F.R. soltanto in favore del coniuge divorziato da un soggetto lavoratore dipendente, e non gia’ a favore del coniuge divorziato da un soggetto imprenditore, o libero professionista, ha posto nel tempo seri dubbi sulla sua costituzionalità. Essi sono stati ricondotti, dalla dottrina e da una parte della giurisprudenza, proprio alla disparita’ di trattamento tra situazioni analoghe, in quanto la situazione di obiettiva diversita’ -sussistente tra il lavoratore dipendente e l’imprenditore o gli altri lavoratori autonomi, sicuramente rilevante ad altri fini – non sembra ragionevolmente giustificare che, in caso di divorzio, tali soggetti debbano assumere nei confronti dei loro ex coniugi diritti e doveri differenziati, in contrasto con gli artt. 3, 29, 38 e 47 Cost.
In particolare, non appare convincente l’argomentazione che fa leva sulla natura di retribuzione differita, tradizionalmente riconosciuta al T.F.R., e quindi sulla considerazione che i proventi dell’imprenditore sarebbero immediatamente percepiti e goduti dall’intera famiglia, mentre la quota del trattamento economico o, maturata in costanza di rapporto di lavoro dipendente ed accantonata forzosamente per legge, legittimerebbe il coniuge divorziato a fruirne ex post perche’ ha contribuito alla formazione di tale trattamento con conseguente sua partecipazione anche alla funzione previdenziale del T.F.R.
Secondo la giurisprudenza piu’ recente del S.C., al T.F.R. va riconosciuta una natura giuridica necessariamente composita, atteso che, dopo l’entrata in vigore della riforma del 1982, il Legislatore, pur ribadendo che tale prestazione ha natura contributiva in funzione latu sensu previdenziale, rilevante ex art. 38 Cost., ha, altresi’, evidenziato la concorrente natura di risparmio forzoso dell’accantonamento operato in favore del lavoratore (si pensi alle norme relative alle modalita’ di applicazione degli interessi e della rivalutazione, a quelle particolarmente restrittive, a tutela delle esigenze delle imprese, sulle anticipazioni in caso di particolari bisogni del lavoratore), tanto che lo stesso Legislatore, in considerazione della previsione costituzionale sulla tutela del risparmio, oggetto di copertura costituzionale ex art. 47, primo comma Cost., ha delineato un sistema tale da garantire la soddisfazione integrale dei diritti maturati dai lavoratori in presenza della crisi dell’impresa, prevedendo l’intervento dell’INPS (Cass. 23 maggio 2001, n. 4261).
A fronte di cio’, si registra un’evoluzione normativa del sistema volta ad incentivare, in misura sempre maggiore, forme di tutela previdenziale di carattere privato per imprenditori, liberi professionisti ed altre categorie produttive diverse dai lavoratori dipendenti, che costituiscono anch’esse forme miste di risparmio e di previdenza, che, se poste in esser in costanza della vita matrimoniale, sottraggono anch’esse una quota del reddito da lavoro all’immediata fruizione della famiglia, per di piu’ per una scelta di carattere del tutto volontaria rimessa alla discrezionalita’ dello stesso lavoratore autonomo.
Ne deriva che non appare in alcun modo ragionevole, oltre ad esser in evidente contrasto con la natura assistenziale dell’istituto, la previsione normativa del diritto all’attribuzione della quota del T.F.R. soltanto in favore del coniuge divorziato da un soggetto lavoratore dipendente, e non gia’ a favore del coniuge divorziato da un soggetto imprenditore o libero professionista, i primi dei quali soltanto, peraltro, sono destinati a subire una decurtazione di parte del trattamento previdenziale loro spettante e del loro risparmio forzoso ed imposto per legge.
Aprile 2017. Avv. Giuseppa Pirrone – Foro di Civitavecchia
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