CONTRASSEGNO SIAE: Corte di Cassazione, Sezione VII Penale, Sentenza 6 marzo 2008 (dep. 29 maggio 2008), n. 21579 – Pres. B. Rossi, Est. A. Franco

Ancora una sentenza sul contrassegno SIAE post sentenza c.d. “Schwibbert”: la mancanza del bollino non è prova o anche mero indizio dell’illegittimità della detenzione, mentre la formula assolutoria più corretta è “il fatto non è previsto dalla legge come reato”

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Catanzaro confermò la sentenza 26.10.2005 del giudice del tribunale di Rossano, che aveva dichiarato B. Y. colpevole del reato di cui all’art. 171 ter, comma 2, lett. a), della legge 22 aprile 1941, n. 633, «per avere abusivamente detenuto per la vendita n. 297 CD di autori diversi, privi di marchio della S.1.A.E.», condannandolo alla pena ritenuta di giustizia.

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo: a) che le prove sono state erroneamente valutate sotto molteplici profili e che egli avrebbe dovuto essere assolto perché il fatto non sussiste, anche perché mancano i presupposti del reato contestato; b) mancanza dell’elemento soggettivo.

Con provvedimento del consigliere delegato dal Primo Presidente il ricorso è stato rimesso a questa Sezione per la decisione in camera di consiglio ai sensi degli artt. 591, primo comma, e 606, terzo comma, cod. proc. pen.

Motivi della decisione

2. Deve essere preliminarmente rilevato d’ufficio che la Corte di Giustizia europea — con sentenza resa ai sensi dell’art. 234 del Trattato CEE, emessa l’8 novembre 2007 nel procedimento C-20/05, Schwibbert, ed avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal tribunale di Forlì sulla questione relativa alla compatibilità della normativa italiana che prevede l’apposizione del contrassegno Siae con la direttiva europea 83/189/CEE del 28 marzo 1983, la quale aveva istituito una procedura di informazione obbligatoria nel settore delle norme e delle regole tecniche — ha statuito che l’obbligo di apporre sui dischi compatti contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno Siae in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato, rientra nel novero delle «regole tecniche», ai sensi della suddetta normativa, che devono essere notificate dallo Stato alla commissione delle Comunità europea, la quale deve poter disporre di informazioni complete al fine di verificare la compatibilità dell’obbligo con il principio di libera circolazione delle merci, con la conseguenza che qualora tali regole tecniche non siano state notificate alla Commissione non possono essere fatte valere nei confronti dei privati e devono essere disapplicate dal giudice nazionale.

La procedura di comunicazione comunitaria, introdotta dalla citata direttiva 83/189/CEE, ha subito varie modifiche, sino ad essere codificata con la direttiva 98/34/CEE, i cui articoli 8 e 9 impongono agli Stati membri di notificare alla Commissione della Comunità europea i progetti di regole tecniche e di sospenderne momentaneamente l’adozione, al fine di consentire alla Commissione di verificarne la compatibilità col diritto comunitario. Tale direttiva ha anche confermato il significato di «regola tecnica», definita quale requisito di un prodotto la cui osservanza è obbligatoria, de jure o de facto, per la sua commercializzazione.

Sebbene la citata sentenza Schwibbert si riferisca specificamente ai contrassegni relativi ai CD contenenti riproduzioni di opere d’arte figurativa, essa stabilisce un principio generale, secondo il quale la violazione dell’obbligo di comunicare alla Commissione ogni istituzione di contrassegno Siae successiva alla direttiva 83/189/CEE per supporti di qualsiasi genere (cartaceo, magnetico, plastico, ecc.) e di ogni contenuto (musicale, letterario, figurativo, ecc.), rende inapplicabile l’obbligo del contrassegno stesso nei confronti dei privati (Sez. III, 12.2.2008, n. 13816, Valentino).
La medesima sentenza Schwibbert considera implicitamente la norma della direttiva 83/189/CEE impositiva dell’obbligo di comunicazione della regola tecnica come una norma comunitaria «ad effetto diretto», in quanto contenente disposizioni precise e determinate, tali che la loro applicazione non è condizionata dalla necessità di ulteriori interventi normativi nazionali, tanto che ha fatto discendere direttamente nei confronti dei soggetti privati l’inapplicabilità della regola tecnica, ed in particolare dell’obbligo del contrassegno Siae, sin dal momento della entrata in vigore della direttiva.
Di conseguenza, l’obbligo di comunicare alla Commissione le regole tecniche introdotte nell’ordinamento italiano vale per tutte le regole istituite dopo l’entrata in vigore della citata direttiva 83/189/CEE, ossia dopo il 31 marzo 1983, e non solo per quelle istituite dopo l’entrata in vigore della legge italiana 21 giugno 1987, n. 317, di recepimento della direttiva.
3. La sentenza Schwibbert ha altresì precisato che lo stabilire il momento in cui l’obbligo di apposizione del contrassegno è stato introdotto nella normativa italiana appartiene alla competenza del giudice nazionale.
Nell’ordinamento italiano l’obbligo di apposizione del contrassegno Siae è stato previsto per la prima volta, in attuazione dell’art. 123 della legge sul diritto di autore 22 aprile 1941, n. 633, con l’art. 12 del regolamento per l’esecuzione della legge stessa, emanato con r.d. 18 maggio 1942, n. 1369. Tale obbligo, però, riguarda soltanto le opere a stampa (a meno che l’autore non apponga direttamente la sua firma autografa su ogni esemplare stampato) ed ha l’unico scopo di carattere civile di permettere all’autore di controllare il numero degli esemplari venduti.
Solo successivamente la funzione del contrassegno ha assunto natura pubblicistica ed è divenuta strumentale alla verifica della originalità del prodotto.
Con l’art. 2 del d.l. 26 gennaio 1987, n. 9, convertito in legge 27 marzo 1987, n. 121, fu infatti previsto l’obbligo di apporre il contrassegno Siae sulle videocassette contenenti opere cinematografiche e furono configurati come delitto la vendita e il noleggio delle videocassette prive del contrassegno.

In seguito, il d. lgs. 29 dicembre 1992, n. 518 (modificato dalla legge 18 agosto 2000, n. 248), introdusse nella legge 22 aprile 1941, n. 633, l’art. 171 bis, che nella sua attuale formulazione punisce chi abusivamente duplica programmi per elaboratore o li commercializza o li riproduce in supporti privi del contrassegno Siae. Con il d. lgs. 16 novembre 1994, n. 685, fu ampliato, con tecnica esasperatamente casistica, l’ambito dei supporti per i quali è previsto l’obbligo del contrassegno, introducendo nella legge sul diritto d’autore l’art. 171 ter, che punisce la vendita e il noleggio di videocassette, musicassette o di altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, privi del contrassegno Siae.

Infine, l’art. 10 della legge 18 agosto 2000, n. 248, ha introdotto nella legge 22 aprile 1941, n. 633, l’art. 181 bis il quale detta le regole generali per contrassegnare tutti i supporti diversi da quelli cartacei, ed in particolare prevede l’apposizione del contrassegno Siae su ogni supporto contenente programmi per elaboratore o multimediali, suoni, voci o immagini in movimento, e precisa il novero delle opere tutelate. Successivamente, con d.P.C.M. 11 luglio 2001, n. 238 è stato emanato il regolamento di esecuzione delle disposizioni relative al contrassegno Siae, di cui all’art. 181 bis legge 22 aprile 1941, n. 633, con il quale sono state, tra l’altro, disciplinate le caratteristiche del timbro da apporre sui supporti. In particolare, è stabilito che il contrassegno deve essere applicato in modo visibile sulla confezione del supporto, a meno che, per le esigenze di commercializzazione di alcuni prodotti, la S.I.A.E. autorizzi l’apposizione sull’involucro esterno della confezione.

Come è già stato esattamene rilevato (Sez. III, 12.2.2008, n. 13816, Valentino, cit.), la «regola tecnica» prevista sin dal 1942 per i supporti cartacei non è la stessa applicata, di fatto e di diritto, per gli altri supporti di tipo diverso (nastri, cassette, dischi, ecc.) in quanto i relativi contrassegni differiscono necessariamente per modalità di applicazione e per caratteristiche intrinseche.

4. Ciò posto, deve ritenersi chiaramente infondata la tesi (peraltro incidentalmente respinta nel punto 40 della sentenza Schwibbert) sostenuta dal Governo italiano e dalla S.I.A.E. davanti alla Corte di Giustizia, secondo cui il contrassegno sulle opere dell’ingegno era stato istituito (ben prima del 31 marzo 1983). con la legge 22 aprile 1941, n. 633, e con il relativo regolamento di esecuzione del 1942, mentre le modifiche legislative apportate nel 1987 e nel 1994 non costituirebbero altro che semplici adeguamenti al processo tecnologico nella produzione dei supporti.

E’ infatti evidente che la «regola tecnica» è comunque cambiata essenzialmente — e deve quindi essere nuovamente sottoposta al vaglio della Commissione — quando il supporto da cartaceo è diventato magnetico, plastico, o di altro materiale, e quando è cambiata anche la tecnica di fissazione dell’opera nel supporto stesso (stampa, fonoregistrazione, videoregistrazione, ecc.).

Per i supporti non cartacei, quindi, l’obbligo di apposizione del contrassegno Siae è posteriore alla istituzione, con la direttiva 83/189/CEE, della procedura di comunicazione. In ogni caso lo Stato italiano aveva un obbligo di nuova notifica, ai sensi dell’art. 8 della direttiva 98/34/CEE, a seguito della modifica apportata al progetto di regola tecnica ed alla inclusione di nuovi supporti nell’ambito dell’obbligo originario di apposizione del contrassegno.

Conseguentemente, in quanto disciplinato da norme comunque successive al 31 marzo 1983, l’obbligo del contrassegno Siae doveva essere previamente notificato alla Commissione europea.

Ora, costituisce fatto notorio (ammesso del resto dalla stessa S.I.A.E. nelle difese dinanzi alla Corte di Giustizia) che la regola tecnica che prevede l’apposizione del contrassegno Siae non è stata mai notificata alla Commissione. L’obbligo di apposizione del contrassegno Siae, pertanto, non può essere fatto valere nei confronti dei privati e deve essere disapplicato dal giudice nazionale.

5. E’ appena il caso di rilevare come il giudice nazionale deve attenersi alla conclusione vincolante resa dalla Corte di Giustizia, in quanto, ai sensi dell’art. 164 del Trattato CEE, l’interpretazione del diritto comunitario da parte della Corte ha efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri, anche ultra partes. Una sentenza della corte interpretativa di una norma comunitaria, infatti, si incorpora nella stessa e ne integra il precetto con immediata efficacia.

Pertanto, per effetto delle direttive comunitarie dianzi ricordate (direttiva 83/189/CEE e successive modificazioni, direttiva 98/34/CEE), così come interpretate dalla Corte di Giustizia, ogni volta che una norma penale prevede fra gli elementi costitutivi del reato la mancanza del contrassegno Siae obbligatoriamente imposto per mezzo di una «regola tecnica», spetta al pubblico ministero provare che la previsione del contrassegno sia anteriore alla data del 31 marzo 1983 ovvero che – se posteriore a quella data – sia stata regolarmente comunicata dallo Stato alla Commissione europea (così Sez. III, 12.2.2008, n. 13816, Valentino, cit.).

In difetto di questa prova, infatti, l’obbligo di apposizione del contrassegno non può essere fatto valere nei confronti dei privati e non può essere applicato dal giudice nazionale.

Di conseguenza, poiché non può essere fatto valere, e quindi non è applicabile — nel senso che non è ancora in vigore —, alcun obbligo di apporre sui supporti il contrassegno Siae, la detenzione, commercializzazione, noleggio, ecc. di supporti privi di detto contrassegno non può ritenersi prevista dalla legge come reato.

La formula di assoluzione da adottare è dunque quella che il fatto contestato (detenzione di CD privi del contrassegno Siae) non è previsto dalla legge come reato e non quella che il fatto non sussiste, in quanto il fatto materiale indicato nel capo di imputazione è stato accertato e si è verificato nella realtà, ma tale fatto non costituisce un illecito penale perché nei confronti dell’imputato non era e non è applicabile, ossia non era e non è operativa, una norma che preveda un obbligo di apporre il contrassegno così come non sono applicabili le norme che prevedono una sanzione per il caso di mancata apposizione.

Ritiene invero in Collegio che non abbia rilievo, a tal fine, il fatto che, astrattamente, possa essere ancora previsto come reato l’uso illecito di supporti privi di altri tipi di contrassegno che eventualmente siano stati validamente notificati alla Commissione europea. La disposizione in questione, infatti, si riferisce esclusivamente ai supporti privi di contrassegno Siae ed il reato contestato all’imputato è quello di avere abusivamente detenuto per la vendita CD privi di contrassegno Siae, ossia di aver tenuto un comportamento che non è previsto come reato dalle norme nazionali applicabili nei suoi confronti.

Tale comportamento, quindi, alla stregua delle norme applicabili, va qualificato come lecito perché non previsto dalla legge come reato, almeno fino a quando non si sarà completata la procedura obbligatoriamente prescritta dalle direttive comunitarie perché le norme acquistino applicabilità nei confronti dei privati, con la comunicazione della regola tecnica sul contrassegno alla Commissione europea affinché questa possa compiere la sua valutazione sulla conformità con l’ordinamento comunitario.

6. All’imputato non sono state contestate altre ipotesi di reato, quale quella di cui all’art. 171 ter, lett. c), della legge 22 aprile 1941, n. 633, che punisce non la mancanza di contrassegno Siae ma chiunque detiene per la vendita supporti illecitamente duplicati o riprodotti, pur non avendo concorso alla duplicazione o sopraffazione, sicché nella specie non si pongono problemi di eventuale annullamento parziale della sentenza impugnata.

Questa diversa ipotesi di reato, infatti, non è incisa dalla inapplicabilità dell’obbligo del contrassegno Siae, se non indirettamente nel senso che la mancanza di tale contrassegno non può essere considerata neppure un semplice indizio della illecita duplicazione o riproduzione, appunto perché per il privato non sussiste alcun obbligo di apposizione del contrassegno, almeno sino a quando non sia completata la procedura prevista dalle direttive europee. Come ha perspicuamente rilevato la citata sentenza della Sez. III, 12.2.2008, n. 13816, Valentino, cit., invero, «la mancanza di contrassegno non può valere come mezzo di prova della illecita duplicazione o riproduzione, giacché altrimenti si continuerebbe a dare al contrassegno quel suo valore essenziale di garanzia della originalità e autenticità dell’opera, che invece non ha acquisito nei confronti dei soggetti privati per effetto della mancata comunicazione alla Commissione europea».

Non può invece condividersi la tesi, prospettata nella medesima e in altre decisioni in pari data, secondo cui la mancanza del contrassegno potrebbe semmai essere valutata come mero indizio della illecita duplicazione o riproduzione, né tanto meno la tesi (sostenuta dalla sentenza della Sez. III, 12.2.2008, n. 13836, El Assi) secondo cui «se trattasi di opera sulla quale l’apposizione è obbligatoria, la mancanza assume particolare valenza indiziaria in ordine all’illecita provenienza del supporto e, valutata unitamente alle altre circostanze del caso concreto, può giustificare l’affermazione di responsabilità».
E difatti, come chiaramente traspare da questa motivazione, attribuire alla mancanza di contrassegno Siae il valore anche di mero indizio di una attività illecita altro non significa, in sostanza, che continuare a ritenere che l’apposizione del contrassegno fosse appunto obbligatoria e che quindi il non aver rispettato tale obbligo significhi indizio di un comportamento illecito.

Sennonché, come ha esplicitamente ribadito la sentenza Schwibbert, il mancato rispetto della procedura prevista dalle direttive comunitarie per l’entrata in vigore delle regole tecniche, comporta, da un lato, che le norme che prescrivono il contrassegno Siae non possono in nessun modo essere opposte ai privati, i quali quindi non possono subire alcun pregiudizio dal fatto di avere del tutto lecitamente tenuto una condotta non conforme alla norma ad essi non opponibile (e dunque nemmeno il pregiudizio che tale lecita condotta sia invece valutata come indizio di un comportamento illecito), e parallelamente comporta, da un altro lato, che le norme stesse non sono in alcun modo applicabili dal giudice nazionale, il quale quindi non può invece continuare ad applicarle indirettamente per qualificare, ora per allora, come dovuta l’apposizione del contrassegno e considerare quindi come sintomo di un illecito la sua mancanza. Questa valenza indiziaria avrebbe potuto essere semmai riconosciuta qualora le norme sull’obbligo del contrassegno fossero state dichiarate incostituzionali, dal momento che, nel nostro ordinamento, la norma di cui in seguito viene dichiarata l’incostituzionalità è invalida, ma efficace, e quindi obbligatoria per i cittadini e la pubblica amministrazione fino alla dichiarazione di incostituzionalità.

Tale valenza non può invece riconoscersi nella vicenda in esame perché le «regole tecniche» non comunicate alla Commissione non sono ancora divenute efficaci e quindi non sono mai state applicabili ai privati. Invero, come prescritto dalla sentenza Schwibbert, il giudice italiano ha – e già aveva anche in precedenza – l’obbligo di considerare inapplicabili ai privati anche per il passato le regole tecniche fino alla loro comunicazione e quindi di ritenere che non è stato finora mai operativo un obbligo di apposizione del contrassegno. D’altra parte, non può disconoscersi che considerare la mancanza del contrassegno come indizio di una illecita riproduzione presuppone appunto che vi fosse un obbligo di mettere il contrassegno, il che a sua volta presuppone che la regola tecnica fosse già operativa ed applicabile ai privati, in contrasto dunque con le direttive europee e con l’interpretazione vincolante della sentenza Schwibbert.

7. E’ altresì opportuno rilevare che, poiché dallo stesso capo di imputazione risulta con evidenza che si tratta di fatto non previsto dalla legge come reato, il Collegio ritiene che sia suo obbligo pronunciare immediatamente d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. pen., sentenza di assoluzione con tale formula.
Tale doverosa pronuncia, invero, non può ritenersi preclusa dall’art. 610, primo comma, cod. proc. pen. (come sostituito dalla legge 26 marzo 2001, n. 28), il quale dispone che questa sezione (alla quale il ricorso è stato assegnato per la eventuale declaratoria di inammissibilità), qualora non dichiari l’inammissibilità rimette gli atti al primo presidente della corte.

Ritiene infatti il Collegio che questa norma, relativa ai casi in cui il ricorso non possa essere definito con una pronuncia di inammissibilità, non abbia comunque derogato alla norma generale dell’art. 129 cod. proc. pen. che pone un vero e proprio obbligo per qualsiasi giudice che rileva una causa di non punibilità di dichiararla immediatamente d’ufficio con sentenza in ogni fase e grado del processo, e quindi anche in questa fase dinanzi alla sezione della corte di cassazione cui il primo presidente ha trasmesso il ricorso avendone in sede di esame preliminare rilevato una causa di inammissibilità.

A questa conclusione, del resto, deve giungersi anche sulla base di una doverosa interpretazione adeguatrice delle due disposizioni in esame, dal momento che una diversa interpretazione – che, pur di fronte ad una causa di assoluzione rilevabile, come nella specie, ictu oculi dallo stesso capo di imputazione, imponesse la trasmissione al primo presidente e quindi ad altra sezione perché pronunci tale declaratoria – si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., e con quello di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., non essendo invero ravvisabile alcun ragionevole motivo per prolungare il processo disconoscendo il diritto dell’imputato di vedersi immediatamente applicata la causa di proscioglimento nel merito.

8. La immediata declaratoria di annullamento di ufficio della sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato – che si fonda sulla sola lettura del capo di imputazione alla luce della normativa europea e nazionale – sarebbe obbligatoria anche qualora il ricorso fosse inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi, così come pacificamente lo è nel caso di estinzione del reato per morte dell’imputato o per remissione di querela.

Il Collegio, invero, ritiene che non possa condividersi la tesi prospettata dalla sentenza della Sez. III,12.2.2008, n. 13853, Luciotto, la quale, in un caso di imputato condannato sia per il reato di vendita di supporti illecitamente duplicati o riprodotti sia per quello di vendita di supporti privi del contrassegno Siae, non ha annullato la condanna relativa a quest’ultimo reato per il motivo che l’inammissibilità del ricorso per un vizio originario costituito dalla manifesta infondatezza dei motivi «impedisce di prendere in esame fatti sopravvenuti eventualmente più favorevoli al prevenuto non dedotti neppure genericamente nei motivi di ricorso e non relativi all’accertamento del fatto reato come, ad esempio, con riferimento alla fattispecie in questione, l’esame della sentenza della Corte di Giustizia CE dell’8 novembre 2007, Schwibbert», e ciò perché «l’inammissibilità dell’impugnazione impedisce la valutazione di disposizioni sopravvenute più favorevoli al reo».

Questa decisione, invero, a parere del Collegio, si fonda su un presupposto che non sembra condivisibile, ossia sull’assunto che l’obbligo per il giudice di non applicare le norme nazionali che prevedono l’apposizione del contrassegno Siae e configurano come reato l’uso illecito di supporti privi del contrassegno derivi dalla sentenza Schwibbert e quindi costituisca un fatto sopravvenuto ovvero una disposizione sopravvenuta più favorevole al reo. Al contrario, l’obbligo di non applicazione di tali norme nei confronti dei privati deriva direttamente dalle direttive 83/189/CEE e 98/34/CEE, e non già dalla sentenza Schwibbert, la quale si é solo limitata ad interpretare la normativa comunitaria posta da queste direttive, sicché l’obbligo di disapplicazione (per giudici, pubblica amministrazione e privati) sussisteva già in precedenza, fin dalla emanazione delle norme interne che prevedono il contrassegno Siae per supporti diversi da quelli cartacei.

Ne deriva che, già al momento in cui è stato commesso il fatto contestato (febbraio 2002), non poteva essere fatto valere, ossia non era applicabile, nei confronti dell’imputato un dovere di apposizione del contrassegno Siae e dunque il comportamento contestato (mancata apposizione del contrassegno) sin dall’origine non era previsto dalla legge come reato.

D’altra parte, se davvero si trattasse di inapplicabilità non originaria ma sopravvenuta per effetto della sentenza Schwibbert si dovrebbe poi ritenere (contrariamente a quanto invece sembra ritenere la stessa sentenza Sez. III, 12.2.2008, n. 13853, Luciotto, cit.) che la stessa, nel caso di sentenza di condanna passata in giudicato, potrebbe essere fatta valere anche in sede esecutiva ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen. in virtù di interpretazione estensiva o di applicazione analogica della norma relativa alla sopravvenuta abrogazione o alla sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale. Sarebbe invero manifestamente illogica una norma che prevedesse la revoca della sentenza di condanna nel caso in cui la cessazione di efficacia della norma incriminatrice sopravvenga per abrogazione o per dichiarazione di incostituzionalità e non anche quando sopravvenga (come assume la tesi in esame) per effetto di una pronuncia della Corte di Giustizia.

La questione non rileva nel presente giudizio, ma conferma la preferibilità della tesi adottata. Ed infatti, se (come riconosce anche la decisione citata) si ammette che anche nel caso di impugnazione inammissibile il giudice della cognizione ha comunque il potere di pronunciare il proscioglimento qualora rilevi che la norma incriminatrice non è più applicabile perché abrogata o dichiarata incostituzionale dopo l’emissione della sentenza impugnata, non si vede come possa negarsi (a meno di non dar luogo ad una disciplina manifestamente irrazionale) che il giudice abbia lo stesso potere quando rilevi che la norma incriminatrice non è mai stata applicabile o non è mai entrata in vigore.

D’altra parte, potrebbe anche osservarsi che, se il fatto per cui è intervenuta condanna non è previsto dalla legge come reato, quale che sia il motivo di ricorso, anche solo relativo alla congruità della pena, e ben difficile (se non forse impossibile) che possa ritenersi manifestamente infondato.

Non è poi chiaro quale influenza abbia la circostanza che il ricorrente abbia o meno dedotto nel ricorso la inapplicabilità delle regole tecniche sul contrassegno Siae, dal momento che si tratta di questione che deve preliminarmente ad ogni altra essere valutata d’ufficio dal giudice, se non altro in applicazione del principio dello iura novit curia e del principio costituzionale secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia a lui applicabile al momento in cui ha commesso il fatto.

9. In ogni caso, nella fattispecie in esame la questione è irrilevante perché i motivi di ricorso non sono manifestamente infondati ed il ricorso è quindi ammissibile.

In primo luogo, invero, l’imputato ha eccepito che il fatto non sussiste e che mancano i presupposti del reato addebitatogli. E questa Corte, per le ragioni indicate, ha appunto accertato che non vi sono i presupposti del reato per man-. canza dell’obbligo di apposizione del contrassegno Siae.
In secondo luogo, il motivo non sarebbe manifestamente infondato quand’anche fossero applicabili le norme sul contrassegno Siae.

L’imputato, invero, è stato condannato per il reato di cui all’art. 171 ter, comma 2, lett. a), della legge 22 aprile 1941, n. 633 per avere abusivamente «detenuto per la vendita» 297 CD privi del contrassegno Siae.

Ora, nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, sono stati affermati i seguenti principi: «in tema di tutela del diritto di autore, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 171- ter, comma secondo lett. a), della legge 22 aprile 1941 n. 633, occorre che gli esemplari di opere tutelate superino il numero di cinquanta e che vi sia stato un effettivo atto di vendita o di cessione del detto numero di copie o esemplari, atteso che per questa diversa e più grave ipotesi di reato è esclusa la equiparazione alla vendita e cessione delle condotte di semplice detenzione, sia pure a fini di vendita, sussistente per l’ipotesi di cui allo stesso art. 171 ter, comma primo, come esplicitato con le modificazioni introdotte dalla legge 18 agosto 2000 n. 248» (Sez. III, 18 gennaio 2006, n. 15516, Diop, m. 233922); «in materia di diritto d’autore, la detenzione, sia pure a scopo di vendita, di oltre cinquanta copie di opere tutelate dal diritto d’autore, non configura il reato di cui all’art. 171 ter, comma secondo, delle legge n. 633 del 1941, e successive modificazioni, in quanto per la sua integrazione è necessario che vi sia stato un effettivo atto di vendita o di cessione del detto numero di copie» (Sez. III, 23 gennaio 2007, n. 15060, Esposito, m. 236334).

Ilmotivo con cui è stata eccepita la mancanza dei presupposti del reato contestato non è quindi manifestamente infondato perché – anche qualora il fatto fosse stato previsto come reato – non è escluso che avrebbe potuto essere comunque ritenuta configurabile la meno grave ipotesi di cui all’art. 171 ter, comma 1, lett. d), della legge 22 aprile 1941, n. 633.

10. In conclusione, pur essendo stato genericamente contestato il reato di cui all’art. 171 ter, comma 2, lett. a), della legge 22 aprile 1941, n. 633 in quanto i CD detenuti per la vendita erano più di 50, con la sentenza impugnata l’imputato è stato condannato unicamente per la condotta consistente nell’aver detenuto per la vendita i suddetti CD privi del contrassegno Siae.
Poiché, per le ragioni indicate, non è applicabile all’imputato alcuna norma che gli imponesse un obbligo di apporre il detto contrassegno né alcuna norma che sanzioni penalmente la mancanza dello stesso, ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto contestato non è previsto dalla legge come reato.

Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 15 marzo 2007