“Il danno non patrimoniale individua una categoria concettuale unitaria rispetto alla quale il richiamo alle singole voci del c.d. danno morale , di quello biologico o, più in generale, del pregiudizio arrecato alle forme di esplicazione della persona dotate di rilievo costituzionale, non valgono a superare la dimensione di una semplice sintesi descrittiva di conseguenze dannose, pur sempre secondarie alla violazione di prerogative giuridicamente rilevanti ai sensi dell’art. 2059 CC; ossia di prerogative connesse alla commissione di violazioni penalmente rilevanti (cfr art. 185 CP), di interessi di indole non patrimoniale che la stessa legge indica come suscettibili di risarcimento in caso di lesioni (cfr art 2059 CC), ovvero di interessi connessi alla sfera di esplicazione della persona formalmente rivestiti di una espressa considerazione di livello costituzionale”
L’enunciato, contenuto nella parte motiva della sentenza della Cassazione 02/02/2017 n° 2720, Presidente Vivaldi Roberta, Relatore Marco Dell’Utri, richiama i noti principi elaborati dalle Sezioni Unite nelle c.d. pronunce di S. Martino del 2008, invero applicati dalla Corte di Appello di Brescia, correttamente secondo gli Ermellini, in un caso in cui era stato lamentato, da parte del ricorrente , che la decisione di primo grado, confermata in sede di gravame, era stata adottata contra ius, nel senso che il ristoro del danno non era stato integrale in ragione del mancato e/o parziale riconoscimento e conseguente omessa liquidazione del danno non patrimoniale, di indole morale, nonché di quello esistenziale in quanto negativamente incidente sulle consuete abitudini di vita del soggetto danneggiato.
In buona sostanza, secondo quest’ultimo, l’aumento del 15% degli importi liquidati, a titolo di danno biologico, dal Giudice di merito, sarebbe stato riduttivo e del tutto insufficiente ad esaurire, in modo completo ed integrale, il ristoro della sfera giuridica del ricorrente danneggiato.
Rigettando il ricorso, la Corte Regolatrice ha rilevato quanto segue.
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I Giudici di merito avevano liquidato il danno biologico sofferto non solo sul piano della perdita anatomico-funzionale rilevata, ma anche in considerazione delle proiezioni dinamico-funzionali indotte dalla lesione riscontrata, in coerenza con la nozione di danno biologico fatta propria dal legislatore (cfr art. 138 D.lgs. 209/2005), che lo ha definito quale “lesione temporanea o permanente alla integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.
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I Giudici di merito, avevano anche apprezzato la specificità delle sofferenze soggettive interiori, che sul piano descrittivo vanno sotto il termine di danno morale, alla stregua delle circostanze di fatto concernenti l’impossibilità del danneggiato, per effetto del sinistro, di attendere alle ordinarie occupazioni di natura ludica e sportiva, proprie di un ragazzo di giovane età (il danneggiato ricorrente), sia pur rilevandone la incidenza lesiva per un periodo di tempo limitato, considerato che la sofferenza morale, per sua natura, è destinata ad attenuarsi nei suoi aspetti pregiudizievoli rilevanti e, quindi, a sfumare nel tempo.
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In questo senso, l’ulteriore aumento (in ragione del 15%) degli importi liquidati a titolo di danno biologico, doveva indurre a ritenere che la sofferenza morale patita dal danneggiato era stata considerata dai Giudici di merito attraverso la c.d. personalizzazione, il cui valore percentuale, individuato dagli stessi, non era suscettibile di sindacato, da parte della S.C., trattandosi di doglianze afferenti l’esercizio della discrezionalità riservata al Giudice del merito.
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Per quanto riguarda il danno esistenziale, ossia quello derivante dalla mancata considerazione delle conseguenze incidenti sul fare areddituale della persona, coinvolgente il sacrificio di interessi di apprezzabile rilevanza sul piano costituzionale, veniva osservato come fosse stata omessa, da parte del ricorrente, l’indicazione di detti interessi, ulteriori e diversi da quelli già coperti dal risarcimento del danno biologico e come non fosse stata proposta alcuna questione sul punto (con conseguente inammissibilità del ricorso).
La sentenza in commento, dunque, si pone sulla scia di quell’orientamento giurisprudenziale, inaugurato dalle S.U. del 2008, che avvertirono l’esigenza di evitare duplicazioni del danno, le cui voci avrebbero soltanto un valore descrittivo, lungi da costituire una categoria autonoma del danno non patrimoniale, da considerarsi nella sua unitarietà, pur ravvisandosi nelle buone intenzioni dei Giudici di legittimità (come è stato sostenuto) elementi di criticità in quelle situazioni in cui effettivamente sono compromesse le molteplici attività realizzatrici della persona umana.
E’ bene ricordare come il dibattito, che si è sviluppato successivamente, sia stato, soprattutto, incentrato sulla configurabilità del danno esistenziale, che in pratica è stato liberato da quella specie di letto di Procuste ove era stato ingiustamente confinato.
Ed, invero, la più recente giurisprudenza di legittimità ( v., ex multis, Cass. 24082/2011, Cass. 20292/2012, Cass. 22585/2013, Cass. 1341/2014, Cass. 9320/2015, Cass. 12211/21015, Cass. 19211/2015, Cass. 23793/2015, Cass. 24210/2015, Cass. Sez. Lav. 583/2016, Cass. 7766/2016) ha ammesso che un evento lesivo produce conseguenze non solo medico-legalmente accertabili (il pregiudizio alla integrità psico-fisica, che va sotto il nome di danno biologico), potendo anche incidere negativamente su altri non meno importanti valori della persona umana, per di più presidiati costituzionalmente, che rappresentano tradizionalmente il danno esistenziale (proiezione esterna dell’essere) e quello morale (interiorizzazione intimistica della sofferenza). Conseguenze, queste, dell’illecito che vanno ristorate in quanto ne sia allegata e provata la esistenza sulla base dell’affermato principio secondo cui “è giusto evitare duplicazioni risarcitorie, ma è altrettanto giusto evitare vuoti risarcitori”.
Una conclusione, quest’ultima, su cui è ritornata spesso la S.C., distinguendo, nell’ambito del danno non patrimoniale, quelli biologico, morale ed esistenziale, laddove quest’ultimo “è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto ed il modo di operare dell’asserito pregiudizio; questo non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illecito altrui dovendo precisare il danneggiato tutto ciò che ha inciso negativamente nella propria sfera, alterandone l’equilibrio, modificando le sue abitudini, inducendo il medesimo, in conseguenza dell’evento dannoso, a scelte di vita diverse da quelle che sarebbero state adottate in mancanza di detto evento”.
In questo senso, il danno non patrimoniale, così come quello patrimoniale, non sono categorie o macrocategorie onnicomprensive, compendiandosi l’uno e l’altro in vari aspetti, voci o sintagmi che, ovviamente, non ricorrono tutti sempre e comunque in ogni ipotesi di illecito. Tuttavia, quando ne è provata la esistenza, ogni vulnus alla persona va risarcito attraverso una valutazione equitativa , che l’ambiente sociale apprezza essere giusta e che è rimandata al prudente apprezzamento del Giudice nel caso concreto, pur dovendosi evitare (come avvertono i Giudici di legittimità) “una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa quantificazione”.
Sotto tale profilo “il danno non può essere liquidato in termini puramente simbolici o irrisori, o comunque non correlati alla sua effettiva natura od entità”.
In tale contesto, il principio dell’integralità del ristoro comporta come sia di fondamentale importanza verificare la esistenza del concreto pregiudizio sofferto dal danneggiato e preso in esame dal Giudice, indipendentemente dal nome juris ad esso assegnato.
Dal principio dell’integralità del ristoro si ricava, proprio per effetto della diversità ontologica tra danno biologico ed esistenziale, che si debbono ristorare entrambi i pregiudizi, che sono aspetti distinti delle conseguenze del danno e per questo meritevoli di essere liquidati, non rappresentando affatto una duplicazione.
Il danneggiato, come ricordato, deve avere né più né meno di quanto gli spetta, alla luce delle circostanze del caso concreto.
Riprendendo il tema delle dinamiche relazionali, occorre che simili manifestazioni abbiano “una effettiva consistenza quali pregiudizi autonomi e diversi dai meri risvolti del danno biologico così da meritare un risarcimento aggiuntivo e, d’altro canto, che non si riducano a disagi o fastidi di carattere futile ed immeritevoli di giuridica considerazione, quali le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza che il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare” (v. Cass. 26972/2011).
Se di diversità ontologica tra danno esistenziale e biologico è lecito discorrere (vedi in tal senso anche l’imponente sentenza della Cass. 1341/2014, nonché Cass. 16197/2015, Cass. 12211/2015, Cass. 19211/2015) perché mai, ci si chiede, si debbano continuare ad applicare i criteri sulla liquidazione personalizzata del danno non patrimoniale e non anche quella separata per ogni voce?
Al riguardo, vanno segnalate Cass. 24210/2015, che riproduce i dicta della decisione 12211/2015 e Cass. 08/05/2015 n° 9320.
Nella prima è stato precisato che l’esigenza di un ristoro integrale attraverso il criterio della personalizzazione, per cui la liquidazione è unitaria determinando il Giudice l’ammontare del danno non patrimoniale, nella misura complessiva dovuta “mediante la somma dei vari addendi”, non cambia affatto risultato laddove invece lo stesso Giudice fosse chiamato ad indicare specificamente le singole somme da imputare alla singola voce o aspetto del pregiudizio effettivamente accettato nella fattispecie sottoposta al suo esame.
Nella seconda delle suddette sentenze, invece, si sostiene che proprio la diversità ontologica dei vari aspetti o voci del danno non patrimoniale imporrebbe che la relativa determinazione venga effettuata per ogni singola delle voci suddette.
Con la appena ricordata decisione viene esplicitato il seguente principio di diritto: “il risarcimento del danno da fatto illecito presuppone che sia stato leso un interesse della vittima, che da tale lesione sia derivata una perdita concreta, ai sensi dell’art. 1223 CC e che tale perdita sia consistita nella diminuzione di valore di un bene o di un interesse. Pertanto, quando la suddetta perdita incida su beni effettivamente diversi, anche non patrimoniali, come il vincolo parentale e la validità psico-fisica, il Giudice è tenuto a liquidare separatamente (N.B.) i due pregiudizi, senza che ciò osti il principio della omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale ha lo scopo di evitare le duplicazioni risarcitorie, inconcepibili nel caso in cui il danno abbia inciso su beni oggettivamente diversi”. In questo senso vedasi anche Cass. 17/12/2015 n° 25351.
Nella sentenza in commento la S.C. non sembra mettere sostanzialmente in discussione i suddetti principi: 1) opinando che anche attraverso le c.d. personalizzazione del danno può essere assicurato l’obiettivo di un equo ristoro del pregiudizio effettivamente sofferto dalla vittima dell’illecito, a prescindere dalla diversità ontologica o meno delle varie voci, che rappresentano una sintesi descrittiva delle conseguenze dannose di un torto subito, facenti parte di una categoria concettuale unitaria; 2) non negando la configurabilità del danno esistenziale (come conseguenza incidente sul fare areddituale) nella specie richiesto aspecificamente e soprattutto non dedotto compiutamente nel giudizio di merito.
Marzo 2107 – Avv. Renato Arseni Foro Civitavecchia