La quietanza ha natura sostanzialmente confessoria in ambito civilistico garantendo piena prova dei fatti dalla stessa attestati e “solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il Giudice circa la verità del fatto stesso” (Cass. S.U. 19888/2014).
Tale principio, tuttavia, non può essere applicato sic et sempliciter in ambito giuslavoristico, allorché viene firmata dal lavoratore, per quietanza, una busta paga, in ragione della peculiarità dell’ipotesi dato che il datore di lavoro ha l’obbligo di consegnare mensilmente al lavoratore la busta paga mentre a quest’ultimo viene richiesto di sottoscrivere il documento accanto od in calce alla dicitura “per quietanza”.
Tale sottoscrizione, anche se accompagnata da detta dicitura, spesso sta ad indicare la sola ricezione del documento senza che vi sia il contestuale pagamento di quanto indicato nella busta paga stessa.
Avviene solitamente, infatti, che il datore di lavoro, nel redigere la busta paga da consegnare al lavoratore, aggiunga, accanto allo spazio per la sottoscrizione del dipendente, la formula “per quietanza” mentre il lavoratore si limita ad apporre la firma, nella maggioranza dei casi, peraltro, utilizzando un modulo preconfezionato che reca già tale locuzione.
Ecco allora che la busta paga firmata dal lavoratore, ancorché vi è indicato l’inciso “per quietanza” , non può assurgere a prova incontrovertibile della reale erogazione degli importi dovuti al lavoratore medesimo come invece avviene quando il creditore di una obbligazione civile rilascia al debitore la quietanza di pagamento.
Nel caso della busta paga sono necessari ulteriori elementi di prova idonei a far presumere che le parti – in particolare il lavoratore che ha apposta la sottoscrizione – abbiano inteso attribuire alla locuzione “per quietanza” il suo proprio e reale significato.
Questo è quanto statuito in una recentissima decisione del Tribunale di Civitavecchia, Sezione Lavoro, Giudice Dr.ssa Irene Abrusci, la quale ha ben spiegato, con una articolata e chiara motivazione, il valore probatorio da assegnarsi alla sottoscrizione per quietanza apposta dal lavoratore in calce ad una busta paga in relazione all’interrogativo, posto dalla vicenda processuale, se da detta sottoscrizione potesse conseguire o meno l’effetto estintivo della obbligazione pecuniaria, a carico del datore di lavoro, contenuta in detto documento.
Il caso: una lavoratrice si era rivolta al Giudice del Lavoro ottenendo, sulla base di alcune buste paga riguardanti il TFR e gli ultimi stipendi prossimi alla cessazione del rapporto di lavoro, decreto ingiuntivo pari alla somma degli importi indicati nelle stesse buste paga che erano state sottoscritte dalla donna “per quietanza”.
Il decreto ingiuntivo veniva opposto dal datore di lavoro il quale assumeva che le buste paga erano state firmate dopo alcuni mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, avendo le parti convenuto una dilazione di pagamento degli importi dovuti dal datore di lavoro: nel momento del pagamento dell’ultima rata e, quindi, con il saldo, la lavoratrice firmava le buste paga “per quietanza” assumendo tale dichiarazione, secondo la tesi di parte datoriale, valore confessorio con conseguente estinzione del debito.
Veniva articolata dal datore di lavoro prova per testi diretta a dimostrare l’accordo di rateizzazione del residuo dovuto alla lavoratrice a conclusione del rapporto e che la firma per quietanza venne apposta con il pagamento dell’ultima rata, a tacitazione di ogni suo avere.
La prova aveva esito positivo per il datore di lavoro, confermando la tesi dallo stesso prospettata e permettendo al Giudice di revocare il decreto ingiuntivo sulla base dei principi giurisprudenziali sopra indicati, che declinano in direzione della insufficienza, sic ed semplicitur, della firma del lavoratore per quietanza in calce alla busta paga, se non accompagnata da ulteriori circostanze idonee (come nel caso di specie) a far presumere che le parti, ed in particolare il lavoratore che ha firmato la busta paga, abbiano voluto attribuire a detta sottoscrizione per quietanza il suo proprio e reale significato di ricezione della somma indicata.
Nel caso di specie, essendo pacifico che gli importi dovuti alla lavoratrice erano quelli indicati nelle buste paga, per cui la stessa aveva agito monitoriamente, la apposizione delle firme per quietanza, all’esito del versamento dell’ultima rata, permetteva al Giudice quindi di ritenere raggiunta completamente la prova del pagamento dovendosi attribuire alla sottoscrizione per quietanza proprio i significato tipico di una “ricevuta a saldo”.
La valutazione del Giudice si pone nel solco di una consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui dalla firma per quietanza in calce ad una busta paga non può trarsi una presunzione assoluta di pagamento in senso satisfattivo, in quanto si tratta di documenti valutabili da parte del Giudice di merito secondo il suo prudente apprezzamento, tenuto conto di tutti gli elementi acquisiti al processo (cfr Cass. 8362/2003, Cass. 9503/2015).
La pronuncia in commento ci sembra del tutto corretta, avendo accertato, sulla base degli altri elementi acquisiti in giudizio, tra cui le prove orali, che alla apposizione della sottoscrizione “per quietanza” in calce alla busta paga, azionate monitoriamente, non potesse attribuirsi altro significato che quello proprio assegnato a detta locuzione, con conseguente estinzione dell’obbligazione pecuniaria del datore di lavoro.
È bene ricordare che vicende processuali come quelle per cui è causa, difficilmente potrebbero ipotizzarsi in futuro, per fatti successivi al 1 luglio 2018, atteso che la legge 205/2017 prescrive il divieto di pagamento dello stipendio in contanti e l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare il pagamento stesso tramite bonifici provvisti di IBAN o assegni bancari al fine di garantirne la tracciabilità.
La norma in particolare fissa il principio che la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce in alcun caso prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione spettante al lavoratore.
Si riportano, testualmente, le disposizioni normative della legge di bilancio 2018 che innovano in subiecta materia e che dovrebbero scoraggiare forme elusive del rapporto di lavoro.
Comma 910
A far data dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro o committenti corrispondono ai lavoratori la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, attraverso una banca o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi:
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bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
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strumenti di pagamento elettronico;
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pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente in tesoreria con mandato di pagamento;
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emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato. L’impedimento s’intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento è il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore,, purché di età non inferiore a sedici anni.
Comma 911
I datori di lavoro o committenti non possono corrispondere la retribuzione per mezzo di denaro contante direttamente al lavoratore, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.
Comma 912
Per rapporto di lavoro, ai fini del comma 910, si intende ogni rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 del codice civile, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto, nonché ogni rapporto di lavoro originato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa e dai contratti di lavoro istaurati in qualsiasi forma dalle cooperative con i propri soci ai sensi della legge 3 aprile 2001, n° 142. La firma apposta dal lavoratore sulla busta non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione.
Comma 913
Le disposizioni di cui ai commi 910 e 911 non si applicano ai rapporti di lavoro maturati con le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n° 165, a quelli di cui alla legge 2 aprile 1958, n° 339, né a quelli comunque rientranti nell’ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Al datore di lavoro o committente che viola l’obbligo di cui al comma 910 si applica la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da € 1.000,00 a € 5.000,00.
Luglio 2018. Avv. Antonio Arseni – Foro Civitavecchia