RITARDO DIAGNOSTICO E VIOLAZIONE DEL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE DI COME VIVERE LE ULTIME FASI DELLA PROPRIA ESISTENZA (Cass. 23/03/2018 n° 7260) A cura dell’Avv. Antonio Arseni- Foro di Civitavecchia

 

 

Il tema del ritardo diagnostico di una malattia terminale, come una patologia neoplastica, che inevitabilmente conduce ad un esito infausto, è stato più volte affrontato nella giurisprudenza di merito e di legittimità che ha fornito soluzioni giuridiche variegate, sulla base del caso concreto, facendo riferimento il più delle volte ai principi della c.d. responsabilità per perdita di chance, laddove il danno si fa consistere nella perdita di specifiche possibilità esistenziali alternative legate a quelle particolari scelte di vita non potute compiere dal paziente in ragione della condotta imperita e/o negligente del sanitario.

Così è stato ritenuto dalla Corte Regolatrice che il danno risarcibile in conseguenza della diagnosi di un processo morboso terminale è ravvisabile solo a causa della perdita per il paziente delle chance di vivere per un “anche breve” periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto ma anche in caso della perdita della chance di conservare durante quel decorso, una migliore qualità della vita (cfr ex multis Cass. 23846/2008; Cass. 16014/2009; Cass. 7195/2014; Cass. 16993/2015).

Diverso l’approccio della decisione in commento (Cass. 23/03/2018 n° 7260, Presidente G. Travaglino, Relatore M. Dell’ Utri), interessante per il suo, per così dire, “ taglio creativo”, laddove viene argutamente sottolineato come il danno, in caso di acclarato ritardo diagnostico di una malattia terminale, nella fattispecie esaminata dalla S.C., deve ritenersi coincidente non tanto con la perdita della chance di sperimentare specifiche possibilità esistenziali alternative, ma piuttosto con la perdita di un “bene reale, certo ed effettivo, non configurabile alla stregua di un quantum di possibilità di risultato o di un evento favorevole, ma apprezzabile con immediatezza quale correlato al diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto”.

Il caso aveva riguardato la vicenda di un uomo che, deceduto a causa di un adenocarcinoma polmonare, tardivamente diagnosticato dai sanitari, non era stato messo in grado di decidere “cosa fare” nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto.

Accolta in primo grado la richiesta di risarcimento del danno da parte degli eredi dell’uomo, la Corte di Appello di Roma ribaltava il verdetto sulla base della circostanza che la parte attrice non aveva allegato alcunché in ordine alle scelte di vita del paziente diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso, non potendosi accedere ad una considerazione in re ipsa del danno denunciato. Una conclusione, questa, censurata dalla Corte Regolatrice essendo  incorsa, la Corte territoriale, in un evidente equivoco considerato che il danno denunciato, nel caso di specie, non potesse farsi “consistere nella perdita  di specifiche possibilità esistenziali alternative necessariamente legate alle particolari scelte di vita non potute compiere dal paziente” ( in un contesto in cui sarebbe stato erroneamente richiamato, secondo la S.C., il tema della perdita di chance) “ bensì con la perdita di un bene effettivo e di immediata protezione giuridica” in quanto correlato al valore supremo della dignità  della persona che, come tale, permette alla medesima di poter beneficiare di quelle specifiche forme di autodeterminazione individuale quali esplicantesi attraverso la particolare condizione di vita affetta da patologie ad esisto certamente infausto.

Una situazione  soggettiva, questa, che per l’appunto, secondo il pensiero della S.C:

  1. viene violata direttamente dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto di cui sia stato autore il sanitario chiamato a risponderne;
  2. che, integrando la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, non richiede l’assolvimento di un onere di ulteriore allegazione argomentativa e probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno inferto sulla base di una liquidazione equitativo

Rilevava, in particolare, la Corte Capitolina che i sanitari si fossero resi effettivamente responsabili della tardiva diagnosi dell’adenocarcinoma polmonare dell’uomo, poi deceduto, colpevolmente trascurando di avviarlo ai necessari approfondimenti diagnostici ma che la domanda risarcitoria dovesse essere rigettata avendo la parte attrice omesso di allegare alcunché in ordine alla scelte di vita del paziente, diverse da quelle  che avrebbe adottato se avesse avuto tempestiva consapevolezza delle proprie effettive condizioni di salute, dovendo pertanto escludersi l’avvenuta dimostrazione di alcuna conseguenza risarcibile. Un equivoco questo, sottolineato e criticato, come visto, dalla S.C. sulla base della configurabilità di una autonoma e diretta tutelabilità risarcitoria del diritto di libera autodeterminazione, nei termini suddetti, che non richiede simile allegazione,  conseguendo il risarcimento  sulla base dell’accertato colpevole ritardo (come nella specie) nonché del dato ( secondo la S.C di per sé non indispensabile) della condizione di materiale ( rilevante o comunque apprezzabile) sofferenza del paziente derivante dalla dedotta patologia, nella fattispecie comunque comprovata

La condizione di  una persona, legata per l’appunto alla possibilità di autodeterminarsi, come meglio crede, nella programmazione della vita residua, in vista dell’ineludibile evento infausto, è un valore di tale pregnanza che non può non essere meritevole di autonoma e diretta tutela risarcitoria (in caso di lesione) in quanto riferito (ricorda la S.C.)  a quel” momento della più intensa prova della vita, quale è il confronto con la realtà della fine ” che richiede nella persona stessa la percezione “ del sé quale soggetto responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale.”