L’avvocato è tenuto in linea di massima ad evitare la moltiplicazione dei giudizi a meno che ciò non corrisponda ad effettive necessità, risolvendosi diversamente, tale comportamento, in un abuso degli strumenti processuali.
Questo il principio di diritto di una recente decisione della Cassazione 23/10/2017 n° 25060, in un caso in cui un avvocato aveva convenuto, avanti un Giudice di Pace, Poste Italiane chiedendo il risarcimento danni derivanti dal ritardo di oltre i 10 giorni nella consegna di una serie di lettere dal medesimo spedite. Detto professionista chiese che, oltre al costo della singola raccomandata (€ 3,90), la convenuta fosse condannata al risarcimento danni ex art. 96 c.p.c. a causa dell’invio di una diffida rimasta inevasa e del conseguente strepitus fori.
Il Giudice di Pace, riunite le 51 cause, condannava Poste Italiane al rimborso della somma di € 3,90, pari al costo di ogni singola raccomandata, oltre al risarcimento danni per lite temeraria, liquidati in € 600,00, ed al rimborso delle spese processuali.
La questione giungeva al vaglio della S.C., dopo che l’appello proposto dalle Poste veniva dichiarato inammissibile, trattandosi di un caso in cui le cause, poi riunite, non superavano il limite di € 1.100,00, con conseguente doverosa pronuncia, secondo equità, come tale inappellabile.
La Cassazione annullava la sentenza sulla scorta dell’enunciato principio, opinando che l’appellabilità della decisione doveva ritenersi consentita a mente dell’art. 339, III° co. c.p.c., essendo stati invocati i principi di correttezza e lealtà processuale, idonei ad integrare la fattispecie normativa di cui alla appena citata disposizione processuale, dovendosi individuare nella violazione di dette regole quella dei principi regolatori della materia.
Nella sentenza in commento gli Ermellini ricordano espressamente che un simile comportamento dell’avvocato, il quale all’evidenza disvelerebbe un comportamento non corretto, in quanto finalizzato ad una indebita lievitazione dei compensi a suo favore, costituisce un abuso degli strumenti processuali, come tale idoneo, peraltro, ad integrare un illecito deontologico a mente della decisione della Cassazione a S.U. 17/01/2017 n° 961.
Secondo quest’ultima pronuncia, la natura abusiva della parcellizzazione del credito (come anche ritenuto da Cass. S.U. 108/2000 e 23726/2007), conseguirebbe, per l’appunto, da quelle regole di correttezza e buona fede correlate ai principi costituzionali del giusto processo e di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), da ritenersi violati quando il creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore ed eserciti l’azione in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione della attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi (cfr Cass. S.U. 23726/2007 cit. e Cass. S.U. 26961/2009).
Quindi, l’avvocato non deve aggravare con onerose e plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita.
La giurisprudenza, pur facendo riferimento all’abuso del processo per definire le conseguenze che si producono dall’uso distorto degli strumenti del credito, più volte ha preso atto che nel nostro Ordinamento manca una vera e propria definizione di abuso del processo.
Gli operatori del diritto tendono a considerarlo quale proiezione dell’abuso del diritto di cui la Cassazione (decisione 2106/2009) fornisce una efficace definizione affermando che “l’abuso del diritto lungi dall’integrare una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzato al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore”; in sostanza è ravvisabile “quando nel collegamento tra il potere conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede”. Un principio che trova conferma nell’ordinamento della Comunità Europea alla luce della nota decisione della Corte di Giustizia (5/7/07 C. 321/05) laddove è stato espressamente consacrato il divieto dell’abuso del diritto nell’ambito dei principi generali dell’Ordinamento Comunitario ponendolo, ai sensi dell’art. 6 TUE, ai vertici delle fonti del diritto dell’Unione.
La c.d. Carta di Nizza ha poi stabilito una norma di chiusura sancendo che “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare una attività o compiere un atto che miri alla distruzione di diritti e delle libertà riconosciuti nella presente carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente carta”.
Dalle prime battute in tema si capisce già come le libertà riconosciute all’individuo dalla nostra Carta Costituzionale siano fondamentali conquiste affinché lo stesso possa esplicare efficacemente la propria personalità nell’ambito della comunità in cui vive ma non esercitabili in termini di assolutezza, ovvero ad libitum, dovendo fare i conti con altri presidi costituzionali di pari importanza fissati per garantire l’ordinata e pacifica convivenza nella Comunità stessa.
Ecco allora che si tratta di trovare il punto di equilibrio tra le opposte esigenze, in un contesto in cui è riconosciuto senz’altro il diritto di azione (art. 24 Cost.) ma attraverso un processo giusto (art. 111 Cost.) predicabile, invero, anche alla luce di principi di solidarietà sociale (art. 2) che impongono alle parti processuali di comportarsi secondo le regole della correttezza e buona fede, di cui sopra si è detto.
Sulla base del contributo del Giudice della nomofilachia può prevenirsi alla seguente classificazione delle ipotesi in cui è configurabile l’abuso del processo catalogabili, per così dire, in due grandi categorie riferibili ai casi di:
- parcellizzazione della domanda, nel cui ambito si pone la sentenza in commento;
- utilizzo di strumenti processuali a fini dilatori o manifestamente infondati.
In tali due macrocategorie, varie sono in concreto le fattispecie che concretamente sostanziano l’abuso del processo.
Nella prima categoria possono farsi rientrare i casi più numerosi del c.d. frazionamento del credito che ricorre allorché una parte, nonostante la fonte del suo diritto trovi origine in un unico rapporto giuridico, per questioni di comodo o per lucrare vantaggi economici (come ad esempio le spese processuali) od altro, introduca distinti procedimenti anziché un unico processo necessario per il conseguimento di quel risultato utile.
Gli esempi sono moltissimi. Sfogliando i massimari della giurisprudenza, ed a titolo esemplificativo, si possono rammentare i casi eclatanti della richiesta di più decreti ingiuntivi per il pagamento di un credito complessivamente portato da separate fatture, qualora tale credito derivi non già da molteplici rapporti obbligatori sussistenti tra le parti bensì da un unico contratto.
In tal senso vedasi, tra le più recenti, Cass. 4702/2015, pur segnalandosi che il contrasto con il principio di correttezza e buona fede e con quello del giusto processo, riscontrato nel caso esaminato dalla appena citata sentenza, non è stato ravvisato nella diversa ipotesi in cui il creditore a tutela di un unico credito, dovuto in forza di un rapporto obbligatorio unico, abbia agito con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con procedimento sommario di cognizione per la parte residua, dovendosi riconoscere il diritto del creditore medesimo ad una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore (v. Cass. 10177/2015). L’unicità del rapporto da cui scaturisce la pretesa fatta valere è, quindi, la condizione minima richiesta per sanzionare “comportamenti non corretti”.
Il principio che si trova affermato nelle numerose decisioni commentate, è sempre lo stesso: il frazionamento del credito derivante da un unico rapporto obbligatorio in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, non deve considerarsi consentito in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione operata dal creditore per sua esclusiva utilità, con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto, ma anche nella eventuale fase della azione giudiziaria per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo.
La tendenza della giurisprudenza, come già visto nell’incipit delle presenti note, è quella di estendere i suddetti principi non solo in materia contrattuale (di cui costituiscono altri esempi le plurime richieste, ritenute improponibili, nell’ambito del rapporto di lavoro, come la richiesta di ricalcolo del TFR sulla base di un lavoro straordinario non dedotto nel precedente definito giudizio – Cass. 2819/2008 – o nell’ambito di un procedimento di esproprio, come la introduzione di distinte cause di identico contenuto nei confronti dello stesso soggetto, con identico patrocinio legale e, quindi, connesse per l’oggetto ed il titolo – Cass. 9488/2014 – o, ancora, nell’ambito di un giudizio introdotto per l’equa riparazione del danno ex L. 89/2001, come le richieste di più soggetti i quali, dopo aver unitariamente agito nel processo presupposto, propongono contemporaneamente, con identico patrocinio legale, distinti ricorsi – Cass. 10488/2011) ma anche in materia extracontrattuale.
Così da ultimo le due recenti sentenze già citate 21318/2015 e 7195/2015, che a loro volta richiamano il precedente e conforme orientamento, rappresentato dalla decisione 28286/2011 alla quale viene data espressamente continuità.
Per concludere va avvertito che nella seconda macrocategoria anzidetta, possono ricomprendersi tutta una serie di “abusi processuali” del tutto diversi e che possono ricondursi a quelle ipotesi in cui una parte utilizzi il processo non per ottenere l’effetto naturale dello strumento (il riconoscimento del diritto sostanziale), bensì per raggiungere un effetto deviato comunque raggiungibile con detto strumento. A titolo esemplificativo i casi più frequenti, tratti dalla giurisprudenza, riguardano i seguenti comportamenti.
- Quello di chi proponga un regolamento preventivo di giurisdizione al solo scopo di ottenere l’effetto dilatorio della sospensione del processo di merito ex art. 367 c.p.c. che, opportunamente modificato con la novella del 1990, ora è possibile solo se l’istanza non sia manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata: comportamento passibile di essere sanzionato per lite temeraria con obbligo del Giudice di riferire all’autorità che esercita il potere disciplinare ex art. 88, 2° comma c.p.c. (v. Cass. S.U. 6420/1896).
- Quello di chi proponga una causa contro un magistrato o un terzo, non perché ritenga di vantare diritti contro gli stessi, ma per scopi deviati come di poter ricusare il Giudice in altro giudizio ex art. 51 c.p.c. o rendere incapace la controparte alla testimonianza in altro processo ex art. 246 c.p.c. (v. Cass. 9652/2003).
- Quello di chi eccepisca la competenza delle Sezioni Agrarie in un giudizio di sfratto per morosità, con l’evidente intenzione di ritardare la definizione della controversia (v. Cass. 4957/1999).
Ma molti altri esempi potrebbero citarsi, tutti caratterizzati dall’essere strumenti utilizzati per scopi dilatori ed incompatibili con la funzione propria assegnata al processo e, per questo, passibili di essere sanzionati con il risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. (come sopra accennato), che rappresenta la proiezione nel processo della specifica azione prevista dall’art. 2043 CC, e che può essere riconosciuto e liquidato equitativamente sulla base dell’id quod plerunque accidit. Ed infatti, afferma la Cassazione (dec. 24645/2007; 3313/2011), “che ingiustificate condotte processuali oltre i danni patrimoniali, causano ex re anche danni di natura psicologica che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa”.
Novembre 2017 . Avv. Renato Arseni – Foro di Civitavecchia