SULLA PROVA DELLA PROPRIETÀ, NELLA RIVENDICAZIONE DI UN BENE IMMOBILE DA ALTRI OCCUPATO, E DEL DANNO DA OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA. INAMMISSIBILITA’ DELLA DOMANDA DI GARANZIA IMPROPRIA (Tribunale di Civitavecchia 02/11/2016 n° 1168).

SULLA PROVA DELLA PROPRIETÀ, NELLA RIVENDICAZIONE DI UN BENE IMMOBILE DA ALTRI OCCUPATO, E DEL DANNO DA OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA. INAMMISSIBILITA’ DELLA DOMANDA DI GARANZIA IMPROPRIA (Tribunale di Civitavecchia 02/11/2016 n° 1168).

 

 

  • L’azione di rivendicazione presuppone, per il suo utile esperimento, la  dimostrazione dell’esistenza di un acquisto a titolo derivativo od originario (usucapione) potendo il convenuto limitarsi a formulare l’eccezione  possideo  quia possideo senza essere onerato di prova alcuna.

 

In mancanza di detta prova, da parte di chi agisce in rivendicazione, il Giudice deve accogliere ugualmente la domanda laddove possa ricavare la sussistenza del diritto di proprietà in capo all’attore attraverso le ammissioni del convenuto ovvero l’esistenza di elementi presuntivi idonei a  tale scopo.

 

  • Nella occupazione senza titolo, il diritto al risarcimento danni può essere riconosciuto in capo al rivendicante solo attraverso la prova dell’effettivo e concreto pregiudizio sofferto, che non può considerarsi in re ipsa.
  • L’azione di garanzia impropria è inammissibile laddove la costituzione in giudizio avvenga in violazione dei termini di cui all’art. 166 e 167 c.p.c. (20 gg. prima udienza indicata nella citazione).

 

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Questi i tre importanti principi affermati nella sentenza del Tribunale di Civitavecchia del 02/11/2016 n° 1168, Giudice Dr. Giovanni Spinelli, in un caso in cui il proprietario di un terreno, asseritamente coltivato, aveva citato in giudizio il confinante ed altro soggetto al quale era stata appaltata la costruzione di un edifico di culto i quali, nella apposizione della recinzione del cantiere, avevano occupato una parte del fondo di proprietà attorea e realizzati altri abusi per cui chiedeva il risarcimento danni insieme al rilascio dell’ appezzamento di terreno reso indisponibile dalla abusiva occupazione.

Con la sentenza in commento, il Tribunale di Civitavecchia, sulla base degli enunciati principi, accoglieva la domanda di rilascio rigettando quella di risarcimento dei danni in quanto le conseguenze dannose della abusiva occupazione risultavano sfornite di prova, non potendo il pregiudizio considerarsi in re ipsa.

Il Tribunale di Civitavecchia, con argomentata motivazione, aderisce, condivisibilmente, ad un indirizzo giurisprudenziale che non è affatto così pacifico, come si potrebbe arguire, rappresentando, quindi, un utile precedente.

Ed, invero, con riguardo soprattutto alla questione maggiormente controversa, relativa alla prova della concreta sussistenza del danno prodotto da una illegittima occupazione,  va notato che  l’attuale approccio interpretativo prevalente si colloca in una posizione più rigorosa escludendo che il pregiudizio possa ritenersi in re ipsa in quanto postula la prova, da parte del danneggiato, di una effettiva lesione del suo patrimonio.

In altro senso, si afferma che il nocumento, subito dal proprietario dell’immobile occupato abusivamente, non può coincidere con il semplice evento della occupazione trattandosi, per l’appunto, di un danno conseguenza: ossia di un quid ontologicamente distinto dalla violazione della preesistente situazione giuridica (cfr , da ultimo, Cass. 27/06/2016 n° 13224).

Approfondendo la vexata quaestio, va evidenziato come l’occupazione illegittima ( che si risolve in una usurpazione dell’altrui diritto ab origine , come ad esempio l’apprensione di un bene all’insaputa o contro la volontà espressa o implicita del proprietario  ovvero, allorché originariamente titolata si trasformi poi, per vicende modificative riguardanti il rapporto contrattuale che l’aveva consentita, in non titolata,  come ad esempio una locazione dichiarata nulla per difetto di forma ) senza dubbio è potenzialmente idonea ad essere produttiva di un danno risarcibile ma è proprio sulla concreta configurabilità del danno stesso che vengono fornite diverse conclusioni, sostanziando in pratica due contrapposte tesi.

La prima, per l’appunto, considera il danno in re ipsa coincidendo con l’evento stesso in quanto discende “dalla perdita di disponibilità del bene e dalla impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera (Cass. 07/06/2001 n° 13630; Cass. 16/04/2013 n° 9137)”.

La seconda,  è diametralmente opposta, reputando che il danno da occupazione (come sopra accennato) è un danno conseguenza “sicché il danneggiato, che ne chieda in giudizio il risarcimento, è tenuto a provare di aver subito una effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare ovvero utilizzare il bene, per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente, ovvero per aver subito altre situazioni pregiudizievoli, con liquidazione richiesta al Giudice di merito, il quale può, al riguardo, avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti (cfr Cass. 01/05/2005 n° 378, Cass. 17/06/2013 n° 15111, Cass. 27/03/2015 n° 6285, Cass. 01/10/2015 n° 19655)

L’elemento qualificante della seconda tesi, che la rende preferibile, è stato efficacemente posto in luce dalla S.C. con la pronuncia 1584/2008, secondo cui l’individuazione del danno da occupazione illegittima in un danno evento significherebbe trasformare il sistema della responsabilità civile da strumento risarcitorio di pregiudizi effettivamente patiti a strumento sanzionatorio di condotte illegittime.

In buona sostanza, se l’occupazione illegittima è di per sé idonea, secondo un giudizio di probabilità e verosimiglianza, ad essere produttiva di un danno, ciò non significa che lo è per davvero nel senso che effettivamente esso sussiste: in questo senso è compito del Giudice verificare se di quel possibile danno sia stata provata la sua attualità, ovvero la sua effettiva esistenza e la sua materiale entità potendo, al riguardo, ricorrere a presunzioni, purché gravi, precise e concordanti a meno che il proprietario dell’immobile occupato sine titulo, ad esempio, si sia intenzionalmente disinteressato della cosa, mostrando, con tale comportamento, di non voler trarre le utilità che dalla stessa derivano (così Cass. 07/08/2012 n° 14222).

La sentenza del Tribunale di Civitavecchia, interviene, in conclusione, su una problematica che non può dirsi affatto risolta, dato che la Corte Regolatrice continua ad affermare la sussistenza in re ipsa del danno da abusiva occupazione, come nel recente reviriment rappresentato dalla decisione 15/10/2015 n° 20823

 

Più uniforme appare l’orientamento della giurisprudenza avuto riguardo all’accennata questione del carico probatorio in relazione alla domanda di rivendicazione svolta per riavere il bene occupato illegittimamente.

Ed invero, come esattamente ritenuto dal Tribunale di Civitavecchia, la prova della proprietà in tutti i casi può essere fornita anche attraverso il ricorso ad elementi presuntivi che dalla costante giurisprudenza di legittimità possono individuarsi nella ammissione o nella mancanza di contestazione del titolo in capo al rivendicante, idonea a sostanziare un fatto pacifico tra le parti e, quindi, a dispensare l’attore rivendicante dall’onere di fornire la prova rigorosa del titolo di proprietà.

Si tratta di una opportuna attenuazione dell’assolutezza di un principio commisurata alla particolarità del caso concreto, che permette di considerare ugualmente raggiunta la prova attraverso il ricorso a mezzi indiretti (in tal senso v. anche Cass. 3028/1979, Cass. 6666/1981, Cass. 4435/1985).

 

Per quanto attiene, infine, alla dichiarata inammissibilità della domanda di garanzia impropria (la società appaltante chiedeva di essere tenuta indenne dalla committente avendo espletato l’incarico quale nudus minister), va segnalato che in subiecta materia  è questione teorica dibattuta quella concernente le domande proposte da un convenuto contro altro convenuto che, benché non espressamente disciplinate dal codice di rito,  sono ritenute ammissibili secondo il parere unanime della giurisprudenza.

In assenza di un inquadramento normativo, dette domande  sono state definite “trasversali”, e cioè assimilabili a riconvenzionali in linea orizzontale laddove, invece,  quelle nei confronti dell’attore si atteggerebbero in senso verticale.

Tra le domande trasversali  rientrerebbe  la chiamata in garanzia impropria, come nella specie, che, come è noto, ricorre quando la responsabilità del convenuto chiamante e quella del chiamato traggono origine da rapporti o situazioni giuridiche diverse ed è esclusa l’esistenza di ogni legame tra il preteso creditore ed il garante, sia quando il convenuto designa un terzo come responsabile di quanto lamentato dall’attore (v. ex multis Cass. 03/06/2006 n.13178).

E’ bene ricordare che da essa si suole distinguere  la garanzia propria che ricorre quando la causa principale e quella accessoria abbiano lo stesso titolo, ovvero quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande (v. ex multis Cass. 30/09/2005 n° 19208).

La distinzione tra garanzia propria ed impropria è stata sempre accettata dalla giurisprudenza, ravvisando il discrimine tra le due sulla base della circostanza che, nella prima ipotesi, ricorrerebbero sempre indici normativi di un collegamento tra il rapporto principale ed il rapporto di garanzia: ma non nella seconda  laddove quella relazione non è già percepibile a livello normativo ma si rivela quando effettivamente si verifichino le fattispecie concrete dei due rapporti.

Mette conto di rilevare, purtuttavia, che la recente pronuncia delle S.U. (v. Cass. 04/12/2015 n° 24707) ha posto in rilievo come la distinzione fra garanzia propria ed impropria è destituita di fondamento e che tutte le fattispecie ricondotte all’una o all’altra categoria, devono andare soggette alla medesima disciplina processuale.

Comunque, a prescindere da tale distinzione, va rilevato, con riguardo alle modalità ed ai tempi di proposizione della domanda trasversale (su cui più propriamente è intervenuta la decisione in commento), che esistono  in giurisprudenza due orientamenti: il primo che fa capo ad una pronuncia del Tribunale di Torino (16.03.1999) secondo il quale il convenuto sarebbe comunque onerato di attivare il meccanismo di cui all’art. 269 cpc, formulando  istanza di differimento della udienza di prima comparizione; il secondo, sostenuto dal Tribunale di Milano 19.06.1997,  dal Tribunale di Napoli 20.09.2001,  dal Tribunale di Varese 01.06.2010 ( tutte in Giur. It. rispettivamente 1998, 269- 2002,992- 2011,1866) sulla base del quale la domanda di un convenuto nei confronti di un altro convenuto deve essere qualificata come domanda riconvenzionale (introducendosi una seconda controversia o se si vuole un ampliamento di quella originaria) e  non richiede, quindi, gli adempimenti previsti per la chiamata  in causa del terzo  dall’art. 269 cpc, essendo efficacemente proposta con la sola introduzione della stessa nella comparsa di  costituzione e risposta tempestivamente depositata. Un interpretazione, questa, che trova un referente di legittimità rappresentato dalla decisione della Corte Regolatrice 12.11.1999 n. 12558 e che appare più coerente con i principi costituzionali di speditezza e ragionevole durata del processo e non affatto irrispettosa del diritto di difesa. Viene fatta salva la ipotesi in cui il  convenuto, nei confronti del quale è proposta la domanda trasversale, da parte di altro convenuto, sia rimasto contumace, nel qual caso  il principio del contraddittorio sarebbe ugualmente rispettato con la notifica di detta domanda ex art. 292 cpc.

Il Tribunale in definitiva,  pregiudizialmente e giustamente ha opinato che la domanda trasversale, nella specie proposta da un convenuto nei confronti dell’altro, a prescindere ad ogni altra considerazione,  non poteva ritenersi regolarmente  introdotta nel processo con la inevitabile conseguenza, stante la natura riconvenzionale, della relativa inammissibilità in quanto contenuta in una comparsa  di costituzione depositata intempestivamente.

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Dicembre 2016 – Avv. Antonio Arseni Foro di Civitavecchia