ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE FRA CONIUGI. CONSEGUENZE (CASS. 25/05/2016 N. 10823) (Nota dell’Avv. Antonio Arseni)

SULLE CONDIZIONI PER LA PRONUNCIA DI ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE FRA CONIUGI. CONSEGUENZE (CASS. 25/05/2016 N. 10823).

L’obbligo reciproco alla fedeltà costituisce uno dei fondamentali doveri che scaturiscono dal matrimonio secondo quanto stabilito dall’art. 143 cc.

La fedeltà si fa comunemente consistere non soltanto nell’impegno, ricadente su ciascuno dei coniugi, di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra gli stessi, ma anche come impegno a non tradire la fiducia reciproca.

Pertanto, l’obbligo di fedeltà coniugale, non solo assume un contenuto negativo avente ad oggetto il dovere di non intrattenere relazioni con terzi, ma anche un contenuto più ampio fino a ricomprendere il dovere di ricerca e realizzazione della comunione di vita materiale e spirituale (in dottrina, v. Bianchini).

Inoltre, come efficacemente rilevato da autorevole dottrina (Finocchiaro, Del Matrimonio Commentario SB pag. 256 e segg.) “l’obbligo di fedeltà riguarda la esclusività del rapporto coniugale ed è violato anche quando il rapporto con gli altri è meramente platonico”: ma a condizione, aggiunge la Cassazione (v. sentenza 26/02/1980 n° 1335), che il rapporto sia intrattenuto con modalità offensive dell’onore e del decoro dell’altro coniuge, a prescindere dalla effettiva ricorrenza dell’adulterio.

La giurisprudenza di merito e di legittimità si è sempre occupata del tradimento ed è giunta all’affermazione  di un principio  – ormai così consolidato da potersi ritenere ius receptum- che l’infedeltà può essere gravida di conseguenze sul piano giuridico, solo se si dimostra “che la relazione extraconiugale è stata la causa della crisi della coppia e non la conseguenza” (v. ex multis Cass. 19/12/2012 n° 23426; Cass. 11/12/2013 n° 27730; Cass. 15/07/2014 n° 16172; Cass. 14/08/2015 n° 16859).

Il principale effetto  della dichiarazione di addebito è previsto dall’art. 156, 1° comma, Cod. Civ., per cui il coniuge dichiarato responsabile della rottura del rapporto matrimoniale non ha diritto a ricevere dall’altro il mantenimento qualora non abbia adeguati redditi propri.

È bene sottolineare che l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi di regola circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si accerti la mancanza del nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, risultando (come sopra ricordato) la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.

Ciò significa, dunque, che un comportamento infedele successivo al verificarsi di una situazione di intollerabilità della convivenza, non rileva affatto ai fini della pronuncia di addebito.

Così Cass. 12/04/2006 n° 8513, ma anche, più di recente, Cass. 09/004/2013 n° 8675, Cass.  17/01/2014 n° 929, Cass. 14/08/2015 n° 16859, fino alla ultima Cass. 25/05/2016 n° 823, la quale ha ribadito che l’infedeltà- così come il diniego di assistenza o il venire meno della coabitazione – viola uno degli obblighi direttamente imposti dalla legge a carico dei coniugi (art. 143 C.C.), così da infirmare, alla radice l’ affectio familiaris in guisa tale da giustificare, secondo una reazione ordinaria causale, la separazione.

In questo senso, l’infedeltà costituisce la premessa della intollerabilità della prosecuzione della convivenza secondo l’id quod plerunque accidt. Purtuttavia l’evento dissolutivo potrebbe non essere riconducibile alla condotta antidoverosa del coniuge, come nel caso di un isolato e remoto episodio di infedeltà da ritenersi presuntivamente superato nel prosieguo di un periodo di convivenza. Con la conseguenza “ che occorre l’elemento della prossimità (post hoc, ergo propter hoc) per far presumere la intollerabilità, il che avviene quando la richiesta di separazione personale segue, senza cesura temporale, l’accertata violazione del dovere coniugale. Diversamente, nel caso, infrequente ma non eccezionale, di accettazione reciproca di un allentamento degli obblighi  previsti dalla norma (come nel c.d. regime dei separati in casa) si prospetterebbe un fatto secondario, accidentale ed atipico, che contrasta con l’applicabilità della regola generale della causalità, onde il relativo onere probatorio incumbit ei qui dicit, spettando di conseguenza all’autore della violazione dell’obbligo la prova della mancanza del nesso eziologico tra infedeltà e crisi coniugale.

Nonostante la grave conseguenza che deriva dall’addebito della separazione, senza dubbio correlata all’importanza del dovere di fedeltà di cui sopra si è detto, il nostro Legislatore si è preoccupato di mitigare, per così dire, la sanzione dell’addebito prevedendo nel 3° comma dell’art. 156 C.C. -sulla base di un chiaro riferimento al principio solidaristico cui si è ispirato- che “resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui all’art. 433 e segg. CC”.

Per meglio comprendere il significato di tale disposizione normativa, occorre  brevemente esaminare quale sia la funzione dell’assegno di mantenimento che può ricevere il coniuge al quale non sia stata addebitata la separazione ed in mancanza di redditi propri e quella dell’assegno alimentare, dovuto comunque al coniuge ancorchè sia ritenuto responsabile della separazione stessa.

Riassuntivamente si può dire che l’assegno di mantenimento svolge una funzione assistenziale nei confronti del coniuge privo di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, sempreché sussista una disparità economica tra i coniugi (v. ex multis Cass. 23/10/2012 n° 18175; Cass. 2/05/2014 n° 11517; Cass. 06/05/2015 n° 9658).

La conservazione del precedente tenore di vita da parte del coniuge beneficiario, è, quindi, un obiettivo tendenziale che va perseguito nei limiti consentiti dalle condizioni economiche del coniuge obbligato.

L’obbligazione alimentare si fonda, invece, sullo stato di bisogno del coniuge (al quale sia stata addebitata la separazione)  che viene a trovarsi, per effetto della rottura del rapporto matrimoniale, nella impossibilità di porvi rimedio.

L’assegno alimentare, ha dunque, un ambito ben limitato che, lungi dall’essere rapportato al pregresso tenore di vita, è rappresentato da quanto occorre per consentire all’alimentando di soddisfare le sue fondamentali esigenze di vita quali vitto, alloggio, vestiario, oltre quei beni e servizi che nella attuale società integrano un minimo di vita dignitosa (in dottrina V. C. M. Bianca La Famiglia Milano 2005, 484, 485, mentre  in giurisprudenza  v. Cass. 08/05/1980 n° 3033).

È appena il caso di osservare, in merito alla obbligazione alimentare, che essa non può essere negata a favore del coniuge al quale sia stata addebitata la separazione qualora questi goda di una modesta pensione di invalidità e per il solo fatto che conviva con i genitori (v. Cass. 26/09/2011 n° 19579).

Inoltre va sottolineato come l’obbligo alimentare non solo presuppone lo stato di indigenza dell’alimentando, il quale deve provare anche l’impossibilità di provvedere al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di una attività lavorativa impedita dalle proprie condizioni di salute ed in genere dalla incapacità fisica, ovvero dalla impossibilità, per circostanze intrinseche al medesimo non imputabili, di trovarsi una occupazione confacente alle sue attitudini e condizioni sociali (così Cass. 30/03/1981 n° 1820; Cass. 14/02/1998 n° 1099; Cass. 24/02/2006 n° 4204).

L’altro importante effetto, che si determina in ipotesi di pronuncia di addebito della separazione ad uno dei coniugi, è previsto in materia successoria, laddove il coniuge separato con addebito conserva soltanto il diritto ad un assegno vitalizio se, al momento dell’apertura della successione, godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.

L’assegno è commisurato alle sostanze ereditate ed alla qualità e numero degli eredi legittimi e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta.

Il coniuge separato con addebito, qualora la relativa sentenza sia passata in giudicato, perde i diritti successori propri del coniuge (art. 548 CC).

La violazione del dovere di fedeltà può  comportare poi  una responsabilità extracontrattuale nell’ambito di quella figura giuridica che va sotto il nome di illecito endofamiliare. Sul punto, le posizioni di chi studia il fenomeno sono divergenti.

Ed invero, una parte della dottrina (M. Finocchiaro e A. Zaccaria), nega l’ammissibilità dell’illecito endofamiliare sulla base della considerazione che la normativa generale prevista dall’art. 2043 CC, sarebbe inapplicabile ai rapporti ricadenti nell’ambito del diritto di famiglia dato che in materia sono previsti dei rimedi specifici per l’ipotesi della violazione dei doveri coniugali, in primo luogo l’addebito della separazione che, come abbiamo visto, determina gravi conseguenze, soprattutto sul piano economico.

I fautori della tesi negazionista (es. A. Zaccaria, L. Lenti) evidenziano, in particolare con riferimento al dovere di fedeltà, come la sua violazione costituisca, in pratica, esercizio di un diritto di libertà, come tale inidoneo ad arrecare un danno che possa più propriamente considerarsi ingiusto, presupposto della tutela aquiliana ex art. 2043 C.C. In pratica la condotta tenuta in ossequio a quei doveri scaturenti dall’art. 143 CC, non sarebbe dotata del carattere della  antigiuridicità

Di contrario avviso altra autorevole dottrina (S. Patti, P. Morozzo della Rocca, M. Bona, G. Facci, M. Dogliatti, P. Cendon e G. Sebastio) secondo la quale non può escludersi che il fatto dannoso conservi la sua rilevanza tipica, ai fini della applicazione della normativa sull’illecito civile, per il solo fatto che esso possa rilevare quale causa di cessazione del rapporto coniugale.

La conferma di tale impostazione è fornita dalla Corte Regolatrice la quale, fin dalla sentenza 10/05/2005 n° 9810, ha affermato “che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio – laddove posta in essere attraverso condotte, che per la loro gravità si pongono come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona – non riceve la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (come ad esempio la separazione con addebito) dovendosi, invece, predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti; con la conseguente concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o del divorzio e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia quale fatto generatore di responsabilità aquiliana”.

Nella giurisprudenza più recente  prevale, dunque, l’opinione che riconosce la risarcibilità del danno derivante dalla violazione dell’obbligo di fedeltà sempreché tale violazione sia avvenuta tramite condotte idonee a determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona.

Il  tema  riguarda più propriamente la compatibilità fra dovere di fedeltà e diritto di autodeterminazione perché, se la separazione e il divorzio costituiscono sicuramente strumenti finalizzati, secondo il Nostro ordinamento, a porre fine a situazioni di impossibilità di prosecuzione della convivenza o di definitiva dissoluzione del vincolo, tuttavia la liceità di tali strumenti non impedisce che il comportamento del coniuge, che costituisce  la causa della separazione o del divorzio, possa integrare gli estremi di un illecito civile.

Nel difficile compito di bilanciare tali posizioni giuridiche di pari rango costituzionale – perché attengono a diritti fondamentali dell’individuo, ossia il diritto del danneggiato, che scaturisce dal principio di solidarietà in ambito familiare, ed il diritto di libertà ed autonomia dell’autore della condotta lesiva- andrebbe verificata quale delle due anzidette posizioni soggettive possa essere prevalente nel caso concreto al fine di evitare ogni automatismo tra vicenda del matrimonio e responsabilità civile.

Il ricorso alla c.d. clausola dell’ingiustizia del danno contribuirebbe a superare eventuali conflitti tra le due posizioni giuridiche anzidette, valutandosi al riguardo la condotta posta in essere dal coniuge fedifrago: solo se essa ha determinato una offesa alla dignità ed all’onore, ma anche all’integrità psico-fisica dell’altro allora sarebbe possibile una condanna al risarcimento del danno.

L’esigenza di contemperare le diverse posizioni dei coniugi, bilanciando i rispettivi interessi in gioco, alla luce dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali della persona, è affermata in modo eloquente da una nota sentenza della Cassazione (15/09/2011 n° 18853) secondo cui “se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di matrimonio, la sanzione tipica prevista dall’Ordinamento è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche, ove la relativa violazione si ponga come causa determinante della separazione tra coniugi, non essendo detta violazione idonea e sufficiente di per sé ad integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l’abbia compiuta né tantomeno del terzo, che al suddetto obbligo è del tutto estraneo”.

In questo senso, “una  coincidenza potrebbe allora ipotizzarsi laddove risulti che la violazione dei doveri coniugali abbia provocato, nell’ambito della sfera del soggetto danneggiato, la lesione di interessi meritevoli di tutela risarcitoria come ad esempio allorché la fedeltà, per le sue modalità, abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa, di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto”

Nella fattispecie concreta è stato riconosciuto il diritto al risarcimento danni a favore della moglie che aveva dovuto subire le sofferenze per la relazione extraconiugale del marito, ampiamente pubblica e quindi particolarmente frustrante.

Su tale lunghezza d’onda si attesta Cass. 17/01/2012 n° 610 la quale, ribadendo i suesposti principi ed ammettendo la risarcibilità dei danni non patrimoniali subiti a causa della violazione dell’obbligo di fedeltà, tuttavia respingeva la domanda in quanto la vittima dell’illecito, nella specie la moglie, non aveva dimostrato che l’adulterio del marito era stato tale da determinare una lesione alla integrità psico-fisica della medesima ovvero dei suoi fondamentali diritti.

Nella giurisprudenza di merito si citano a titolo meramente esemplificativo, Tribunale di Prato 18/02/2010 n° (in Diritto Fam. 2010, 1269), Tribunale di Roma 22/11/2013 n° 23543, Tribunale di Reggio Emilia 15/05/2014 n° 715 e Tribunale di Bologna 17/012/2012 n° 3207 ( in Il Sole 24 ore  Mass. Rep. Lex 24), le quali confermano detto orientamento.

Ma l’interrogativo che gli operatori del diritto si pongono è se il risarcimento del danno presupponga  o meno la pronuncia di addebito e quali potrebbero essere gli effetti relativi rispetto al giudizio per danni.

Inoltre se la domanda risarcitoria può essere svolta nell’ambito del giudizio di addebito.

Quanto alla prima questione, si è ricordato come non sia possibile in subiecta materia qualsiasi automatismo tra la condotta lesiva dei doveri sanciti dall’art. 143 CC e la pronuncia di addebito dovendosi negare, a fortiori, che tale comportamento possa di per sé essere fonte di responsabilità civile ed affermare, dall’altro canto, che la pretesa risarcitoria debba essere connotata di un quid plus, rappresentato proprio dalla esistenza di un danno ingiusto: il quale (NB) non coincide né con la semplice violazione dei doveri matrimoniali né con la mera rottura dell’unione coniugale, scelta, questa, inquadrabile tra i diritti che garantiscono la libertà della persona.

In questo senso, la tutela aquiliana è predicabile solo in presenza di condotte intrinsecamente gravi tali da costituire una aggressione ai diritti fondamentali della persona di talché il risarcimento potrà essere accordato solo nel contesto di tali comportamenti lesivi, idonei a sostanziare il requisito della ingiustizia del danno.

Da ciò deriva che la semplice pronuncia di addebito non determina necessariamente effetti risarcitori pur costituendo presupposto cui agganciare la richiesta di risarcimento. Con la conseguenza che l’assenza di una pronuncia di addebito escluderebbe il fondamento della pretesa risarcitoria in quanto difetterebbe, in ogni caso, la sussistenza in radice di un danno ingiusto. Tale tesi è  stata sostenuta in particolar modo dal Tribunale di Roma citandosi, ad esempio, le sentenze 29/05/2013 e 25/06/2015 (in Red. Giuffré 2013/2015). Di contrario avviso il Tribunale di Latina 22/02/2012 (in Red. Giuffré 2012) secondo il quale “i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa implicare gli estremi dello illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 CC, senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni”

Tale ultima pronuncia si pone in linea con l’orientamento espresso dalla Cassazione nella citata sentenza 18853/2011 la quale, nell’escludere un collegamento tra addebito della separazione e responsabilità risarcitoria, ha sottolineato come la mancanza di addebito della separazione non impedisca una distinta azione per il risarcimento dei danni cagionati dalla violazione dei doveri coniugali, con la conseguenza che “ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l’addebito, o si sia rinunciato alla relativa pronuncia, il giudicato si forma sul dedotto e deducibile unicamente in relazione al petitum azionato e non sussiste, pertanto, alcuna preclusione allo esperimento della azione risarcitoria per la violazione di cui all’art. 143 CC, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale”.

In buona sostanza, se la domanda risarcitoria normalmente si fonda su fatti che giustificano l’addebito, tuttavia non ogni pronuncia di addebito giustifica il risarcimento: infatti la violazione di un dovere matrimoniale come la fedeltà, anche qualora determini la intollerabilità della convivenza non necessariamente rappresenta un danno ingiusto, nella accezione di cui si è sopra discusso, che costituisce presupposto per l’illecito endofamiliare.

Tale opinione appare confermata dalla successiva Cass. 17/01/2012 n° 610 e da Cass. 06/06/2013 n° 14366 ove è sottolineata la differenza (dei presupposti e caratteri) tra la domanda risarcitoria, per i danni conseguenti alla violazione degli obblighi matrimoniali,  e quella di addebito.

Una differenza che impedisce – data la mancanza di una ipotesi di  connessione“forte” tra le due domande- la possibilità di proporle cumulativamente in un unico processo, rimanendo soggette a riti diversi (Cass. 08/09/2014 n° 18870).

Novembre 2016. Avv. Antonio Arseni- Foro di Civitavecchia